Traduzione dal latino della
lettera di Armand de Châteauroux all'eccellentissimo Padre Juan Pérez
a cura di Mariano Tomatis
Prefazione
"La cosa più grande dalla Creazione del mondo, eccetto l'incarnazione e la morte del
suo Creatore, è la scoperta delle Indie" scriveva il cronista spagnolo Francisco
Lopez de Gomara negli ultimi anni del XV secolo; una lode implicita all'ammiraglio
genovese Cristoforo Colombo, la cui gloria rende paradossale il fatto che ancora oggi
ignoriamo quasi tutto dei suoi primi 25 anni di vita. "D'altra parte" scrive
lo storico Michel Lequenne, "gli avvenimenti che costellano la sua vita, la
genesi della sua scoperta, e persino la vera natura di questa, sono coperti da una fitta
rete di misteri.". E' forse quest'alone d'enigma che ha portato gli storici e i
mistificatori di ogni tempo ad elaborare le teorie più varie intorno al navigatore
genovese: fu ritenuto a seconda delle occasioni un giudeo, un Cavaliere di Cristo, un
eresiarca sostenitore di una religio universalis, un Templare...
Ritengo, di conseguenza, che giungerà gradita la traduzione italiana della Lettera di
Armand de Châteauroux all'eccellentissimo Padre Juan Pérez non solo per l'apporto che
potrà fornire allo storico interessato a risolvere le contraddizioni presenti nelle
biografie "ufficiali" di Cristoforo Colombo (che Armand chiama sempre con il
nome spagnolo di Cristobal Colón), ma soprattutto per la testimonianza oculare che
il frate francese dà di quel luogo nominato - nella letteratura specializzata - con
quella "maledetta parola che inizia per A".
Il manoscritto che riporta le vicende di padre Armand, rinvenuto nell'agosto 1997 in un
scantinato di Venezia, mi è stato ceduto a modico prezzo dall'ingegner Tommaso Traian,
che ringrazio cordialmente. Non si tratta dell'originale, datato 1507, ma di una copia
realizzata alla fine del secolo XIX. Il testo documenta un solo passaggio di Armand de
Châteauroux nel capoluogo veneto, tra il 1472 e il 1473. E' fatto innegabile, dunque, che
il manoscritto vi sia giunto per altra via. Destinatario della missiva è Padre Juan
Pérez, priore del convento francescano di La Rabida, distante sei chilometri da Palos.
Secondo alcuni biografi, fu proprio tramite il priore Juan Pérez che Colombo, nel 1485,
entrò in contatto con i monaci di La Rabida, cui affidò il figlio Diego. La mediazione
del destinatario della lettera fu provvidenziale all'ammiraglio genovese per ottenere il
consenso della regina Isabella di Spagna alla spedizione verso le Americhe.
Il mittente è tale Armand da Châteauroux, cistercense francese conosciuto a suo tempo
sotto il falso nome di Armanio da Castellón de la Plana. In nessun archivio dell'epoca,
neppure a Cîteaux, ove prese i voti nel 1459, compare alcun riferimento all'autore della
lettera. Questa, scritta a La Rabida nel settembre 1507, può essere considerata una sorta
di sua autobiografia. In essa egli rende testimonianza dei numerosi luoghi visitati
durante i frequenti viaggi per mare, a seguito delle navi del genovese Enrico La Spinola.
La lettera mostra una struttura bizzarra. Come in un gioco di scatole cinesi, il resoconto
manoscritto di Armand si incentra a sua volta su una lettera manoscritta ritrovata dal
frate francese. Quest'ultima, inviata nel 1140 da uno sconosciuto sacerdote che si firma pater
Johannes al papa Onorio II, venne riportata già nel 1992 da Alfredo Castelli in un suo
lavoro dal titolo "La quarta caravella". Gli eventi vissuti da Cristoforo
Colombo nel 1469 e citati da Armand trovano analoga corrispondenza nello scritto di
Castelli, cui mi sono anche riferito per la traduzione italiana della lettera dell'ignoto
sacerdote.
Per tutti questi motivi a lui vanno i miei più sentiti ringraziamenti.
Sono al corrente dei rischi che corro innanzitutto presentando questo manoscritto come
autentico, ma ancor più proponendo un'ulteriore testimonianza dell'esistenza di una terra
il cui nome suscita ancora l'ilarità da parte degli studiosi della cosiddetta
"Storia Ufficiale". Temo, infatti, che lo scritto di Armand possa insieme essere
accolto con indifferenza dagli storici e ingiustamente strumentalizzato da occultisti, che
lo citeranno a riprova delle loro dubbie teorie.
Mi risolsi a pubblicare la lettera di Armand quando m'accorsi che, citando la stessa, "la
luce della Verità conferiva a quelle parole uno splendore insolito, che non mi lasciava
pace". Sono conscio d'offrire all'attenzione del lettore una cronaca affascinante,
che darà, tra l'altro, una soluzione forse definitiva dell'ormai secolare mistero della
firma di Cristoforo Colombo, su cui da tempo storici, archeologi ed occultisti stanno
congetturando.
Un resoconto puntuale che potrà contribuire a far luce sull'enigmatica figura dell'uomo
che (per primo?) ha scoperto un Nuovo Mondo.
Mariano Tomatis
O
mio eccellentissimo maestro, il Signore mi conceda la grazia di redigere un resoconto verace e rigoroso degli accadimenti che mi videro protagonista durante l'ultimo quarto del secolo da poco terminato, nonostante i miei ricordi siano ormai sbiaditi e questo manoscritto, per le rivelazioni insidiose ed eretiche, difficilmente sopravviverà alla furia di coloro che rifuggono la Scienza e la Ragione. Invio a voi memoria delle terre che toccai quando il mio corpo era ancora privo di quegli umori che ora mi condannano a vivere in questa cella umida, allietato soltanto dalla fragranza del muschio ormai arrampicatosi sulla corrotta inferriata che mi separa dal chiostro. Ho opinione che delle mie visioni e dei miei viaggi non debba esser resa testimonianza che a voi, che avete conoscenza delle trame del maligno e potete distinguere ciò che può esser scoperto al volgo da ciò che invece dev'esser occultato tra i silenti scaffali della nostra biblioteca. A voi, Padre Juan Pérez, affido la mia testimonianza, accurata quanto veritiera, nella speranza che Nostro Signore mi perdoni di aver rivelato, sine malitia, particolari affidatimi in confidenza da peccatori di cui ho deciso di tacere i nomi, nel desiderio forse vano di ottenerne una pena minore nel Giorno del Giudizio.
E'
con atteggiamento penitente che mi accingo a narrare gli anni che vissi lontano da questo convento. Mi pento e riconosco di non avervi mai reso partecipe dei fatti mirabili di cui fui protagonista. Anni vissuti altrove sono stati causa di mormorii e storie intorno alla mia persona che i novizi ancora oggi si confidano in segreto e che forse sono giunte anche ai vostri orecchi. Riferisco a voi, Padre eccellentissimo, che si tratta di null'altro se non fantasticherie nate in seguito al mio rifiuto di rivelare le mie origini francesi. Io sono conosciuto da quasi trent'anni dai francescani di La Rabida come Armanio da Castellón de la Plana. Armand de Châteauroux fu, invece, il nome che mi venne assegnato da mio padre. Nella vostra indulgenza confido, chiedendovi perdono per avervi celato così a lungo il mio vero nome. O Padre eccellentissimo, comprenderete presto la necessità di mutarlo e di celare le mie origini, nascondendole sotto una falsa provenienza dalla città spagnola di Castellón. Ecco, dunque, la verità sugli anni che mi videro lontano da questo convento, nel quale dal 1481 dimoro lodando il Nome dell'Altissimo.
"S
ummo ac Venerandissimo Pontifici Honorio, rendo grazie al Signore di cui io, padre Giovanni, sono umile e devoto sacerdote, per aver posto fine all'odissea iniziata dieci lunghi anni fa, allorché nel 1130, presi il mare da Genova diretto verso Cadice. Oltrepassate le Colonne d'Ercole, una furiosa tempesta si abbatté sulla nave. I marinai erano terrorizzati, e a stento riuscii a calmarli, intonando salmi. La tempesta si protrasse per giorni e notti. Sembrava che la collera del cielo si fosse scatenata sul capo del suo misero servitore. Governare la nave era impossibile. Molti perirono, strappati via dalle onde. Poi, il decimo giorno, il vento si placò, ma poche erano le possibilità di salvezza. Il cibo scarseggiava, le provviste rimaste si consumano sotto il sole. Anche l'acqua, di cui avevamo raccolto un'abbondante scorta durante la tempesta, si imputridiva nei barili. Alberi e vele erano stati danneggiati dal fortunale, tuttavia l'imbarcazione procedeva egualmente, trascinata da una corrente sconosciuta. Giorno dopo giorno, spinti da venti impetuosi che gonfiavano ciò che rimaneva della vela, verso un destino sconosciuto. Solo la fede mi impedì di compiere l'atto supremo e di togliermi la vita, anche se non ero certo - che Dio mi perdoni - che le tenebre dell'inferno fossero peggiori degli orrori di quel viaggio. Non so neppure quanto tempo durò quell'agonia. Ma un giorno all'orizzonte comparve, inaspettatamente, una terra sconosciuta. Quando approdammo, fummo accolti da uomini con la pelle rossa, acconciati con penne variopinte. Questi indigeni non portavano né bastoni, né zagalie, né altro tipo di arma. Erano miti e gentili, e io immaginai che così avremmo potuto essere se non avessimo perduto per sempre il Paradiso Terrestre. Quella terra era ricca e generosa, sia di frutti che di cacciagione, oro e pietre preziose e i suoi abitanti ci accolsero come fratelli e ci sfamarono. Io parlai loro del Dio giusto che sta nei cieli, e molti dei loro capi vollero convertirsi alla vera fede. Tra i superstiti del naufragio vi era il carpentiere di bordo. Con il suo aiuto, e con quello degli uomini dalla pelle rossa, riparammo la nostra nave e un'altra ne costruimmo. Mi stupii della velocità con cui quelle creature che Dio aveva voluto creare al di là dell'oceano impararono a maneggiare strumenti che non avevano mai visto prima. A bordo delle navi gemelle, esplorammo una parte di quella terra sconfinata, e vedemmo cose fantastiche e prodigiose. Immensi alberi alti fino alle stelle, le cui radici formavano di per se stesse una foresta, paludi senza fine, popolate da animali meravigliosi e sconosciuti, e soprattutto una sorgente, che gli uomini dalla pelle rossa chiamavano "fonte della vita". Io stesso lasciai che l'acqua mi scorresse sugli abiti, e d'improvviso sentii svanire la stanchezza per il lungo viaggio. Mi parve che le membra si facessero più leggere e mi sembrò di essere tornato vigoroso come negli anni della gioventù. Compresi che avevo trovato quel sacro luogo per volere di Dio e volli che Santità Vostra fosse a conoscenza dell'Arcadia in cui ero giunto portato dai venti, e scrissi questa lettera, e poiché non voglio abbandonare i miei fedeli, affiderò il mio messaggio a coloro che mi hanno accompagnato per molti viaggi e meglio conoscono la manovra della nave e Iddio Onnipotente sarà il capitano. Nei lunghi anni della mia permanenza ho insegnato ai miei fedeli il latino. Essi potranno riferire a viva voce a vostra santità la potenza e la fede del reame che vengono ad offrirvi, e descrivervi le meraviglie di queste terre create da Dio Onnipotente a sua maggiore gloria, e io spero che vostra santità si degni di concedere a questi coraggiosi messaggeri la sua personale benedizione. Il vostro devoto pater Johannes."
potevano essere lette indifferentemente da sinistra a destra o dall'alto verso il basso.
Non si trattava né di latino, né di francese. Il mercante mi spiegò che poteva
trattarsi di un idioma che univa a termini latini alcuni vocaboli della lingua italiana.
Le varie parole, prese singolarmente, potevano avere un significato proprio; moria,
mi spiegarono, poteva ricordare il passato del verbo "morire"; ovest
sembrava abbastanza chiaro come termine, ma doveva essere inserito nel più ampio contesto
della frase; rexol era assolutamente privo di un significato evidente (forse si
trattava di un nome proprio); isola poteva banalmente riferirsi ad una terraferma
circondata da acqua; atlas richiamava alla mente il nome della divinità greca di
Atlante, ma la connessione non era affatto immediata, e si basava su una semplice
consonanza.
Come riferitomi dal mercante, il quadrato sembrava riferirsi ad una terra a ponente di
"qualcosa".
Lo ringraziai calorosamente per avermi mostrato quel documento, che rilessi più volte per
imprimerlo nella mia mente. Egli si fermò nella sua abitazione fino a sera, e ripartimmo
per Monfalcone quando la luna era già alta.
Dio volle che tre giorni dopo fossimo nuovamente a Genova, ov'io potei riflettere sugli
elementi che da tempo stavo raccogliendo sulla possibile presenza di una terra ad ovest
delle colonne d'Ercole. E passarono molti mesi prima di venir nuovamente convocato a bordo
d'una nave mercantile. Mantenni rapporti epistolari con la Commissione portoghese
presieduta dall'illustrissimo Diego Cortiz di Villegas, e seppi, così, che nei primi mesi
del 1474 il fiorentino Paolo dal Pozzo Toscanelli aveva finalmente inviato una lettera ed
una carta da lui stesso disegnata al canonico portoghese Fernando Martins. In essa rendeva
pubbliche le conclusioni cui eravamo giunti in tanti anni di supposizioni e dibattiti: la
via dell'Ovest era la più breve per raggiungere le Indie.
L'ingente mole di materiale che avevo raccolto in anni di studi mi fornì quella perizia
in fatto di arte marittima richiesta dal Circolo della Navigazione di Genova a coloro che
avessero desiderato prender parte alle riunioni ed associarsi al gruppo. Dopo aver
partecipato ad alcuni dibattiti dedicati alla cartografia e al possibile utilizzo di
clessidre per determinare la longitudine, chiesi agli altri membri licenza di proporre una
questione su cui dibattere: le teorie di Paolo dal Pozzo. Mai tema fu più vigorosamente
discusso e dibattuto. Riconobbi in colui che più si infiammò il corsaro che aveva
tentato di convincermi ad accompagnarlo nella sua azione contro la Fernandina sulle
coste tunigine. Mi riconobbe, e volle avere un colloquio con me.
Ci incontrammo all'inizio del 1475, poco dopo l'arrivo della notizia che i portoghesi
erano approdati in una zona dell'Africa centrale [23]
ricca di miniere d'oro, coltivazioni di pepe e moltissimi schiavi. Uomo di ben formata e
più che mediocre statura, di volto lungo e di guance un poco alte, senza che declinasse a
grasso, o macilento [24], Cristobal Còlon mi apparve
persona piacevole e graziosa quando voleva, iraconda e furiosa quando si corrucciava [25]. Nulla di rozzo v'era in lui, uomo che più volte avevo giudicato
oltremodo temerario e irrispettoso per l'azione corsara in cui voleva coinvolgermi. E non
vi stupisca, Padre, la descrizione che vi do di costui, perché nonostante non reputi
tanto importante l'aspetto esteriore degli uomini che incontro, quanto invece la purezza
del loro cuore e dei loro intenti, in lui vidi manifesti sul volto i tratti che sorgono da
una personalità a un tempo razionale e impulsiva, insieme fortemente aperta alla
conoscenza e alla fede nell'Onnipotente, al punto che, se aveva alcuna cosa da scrivere,
non provava la penna senza vergar prima le parole Iesum cum Maria sit nobis in via [26].
Mi riferì che da tempo il pensiero di raggiungere le Indie navigando verso ponente lo
stava scuotendo, e che da poco aveva ricevuto da Paolo dal Pozzo Toscanelli copia della
lettera e della carta inviate a Fernando Martins [27].
Mi mostrò una pergamena scritta dallo studioso fiorentino, su cui comparivano le parole
"A Cristoforo Colombo Paolo fisico salute. Io vedo il magnifico e grande tuo
desiderio di voler passare là dove nascono le spezie, e per risposta alla tua lettera ti
mando la copia di altra lettera che anni fa io scrissi ad un amico e familiare del
serenissimo re di Portogallo." Gli domandai se possedesse la copia citata nella
lettera, ed egli estrasse dal cassone un involto contenente decine di fogli ingialliti. Me
ne porse uno di essi, e potei leggere le parole che mi indicò con il suo dito:
"...rimetto, dunque, a Sua Maestà una carta fatta colle mie mani, nella quale si
trovan disegnati i vostri lidi e le isole dalle quali il viaggio si dovrebbe incominciare,
sempre verso occidente, e i luoghi ai quali si dovrebbe giungere, luoghi fertilissimi
d'ogni specie di aromi e gemme. E non vi maravigliate se chiamo parti occidentali
quelle dove sono gli aromi, mentre comunemente si chiamano orientali, poiché
quelli che navigheranno continuamente a ponente, per mezzo della navigazione agli
antipodi, raggiungeranno dette regioni, mentre se vi si va per la via di terra e rimanendo
sempre nel nostro emisfero, si ritroveranno ad oriente".
I suoi studi sul regime dei venti atlantici rafforzarono in lui la convinzione che
l'Oceano si potesse attraversare. Mi mostrò anche alcune carte ispirate a Tolomeo e alla
teoria sull'equilibrio dei continenti. Esse lasciavano supporre l'esistenza di un
continente sconosciuto a sud dell'Asia, in cui - a quanto si diceva - il sole faceva
spuntare l'oro. Su un'altra mappa, tale terra era identificata con il Giardino di Eden.
Accennò ad un viaggio che voleva intraprendere per risolvere alcuni dubbi e trovare prove
da esibire ai monarchi europei al fin di ottenere finanziamenti per una spedizione verso
ponente. Mi fece capire che avrebbe apprezzato la mia presenza durante quella spedizione,
non solo per le mie funzioni sacerdotali, ma anche per la cultura di cui, Dio mi salvi
dalla vanità, avevo dato prova durante i dibattiti sull'arte di navigazione. Ero sicuro
che, tacitamente, egli volesse compiere tale viaggio a fianco di uomini che condividessero
la sua fede nel tragitto ad Ovest verso le Indie. Vi sarete accorto, Padre, ch'io mai
citai il manoscritto di Cîteaux a prova delle mie parole. Forse il timore ch'esse fossero
fomite d'eresia, o molto più facilmente l'orgoglio d'esser l'unico depositario di un
testo risalente ad ormai tre secoli fa, m'impedirono di parlare di pater Johannes e
dell'Arcadia da lui ritrovata nelle sconosciute terre dell'Ovest. Ma vi assicuro, Padre,
di non aver mai perduto la fede nell'infallibilità delle Sacre Scritture, né d'aver mai
smesso di lodare il Nome dell'Altissimo per le meraviglie del suo cosmo e per l'infinita
varietà dei rami, dei gruppi, delle classi, delle sottoclassi, degli ordini, delle
famiglie, dei generi, dei sottogeneri, delle specie e delle varietà in cui aveva
suddiviso ogni realtà creata, visibile e invisibile. E lungi dal destare in me
perplessità, il pensiero di terre a ponente mi spingeva ad innalzare il mio canto di lode
all'Onnipotente con ancora maggior vigore ed entusiasmo, quasi la presenza di regioni
sconosciute giungesse a prova per la cristianità dell'infinita natura di Iddio Nostro
Padre; come, infatti, la magnificenza dell'Altissimo era incircoscrivibile dalla nostra
mente, così era per le terre emerse, mai conoscibili nella loro totalità. Per questi
motivi, Padre, vi rassicuro sulla bontà dei miei pensieri circa una pergamena che, letta
altrimenti, sarebbe diventata fomite di gravi ed insidiose eresie.
Ma il mio pensiero ritorni alla proposta che l'ammiraglio Cristobal mi fece. Egli fissò
nei primi mesi del 1477 una possibile partenza per il viaggio verso le isole
settentrionali di cui nei secoli passati parlò Tolomeo [28].
Fu piuttosto oscuro sul motivo per cui una spedizione del genere richiedesse due anni di
preparazione. Seppi in seguito che, il 13 agosto 1476, egli si trovava a bordo di una nave
corsara catalano-francese comandata dall'ammiraglio Casenove-Coullon. Nei pressi del capo
San Vicente si consumò uno scontro tra l'imbarcazione e una flotta genovese. Volontà
divina volle ch'egli riuscisse, in seguito ad un incendio occorso alla nave, a raggiungere
la terraferma e a mettersi in salvo.
Ma dirò dei due anni che intercorsero tra l'incontro con Cristobal e la partenza per
l'ultima Tile [29]. Se anche per lunghi mesi
solcai le onde mediterranee e mi spinsi anche sulle coste africane, non rinunciai a
sottrarre al sonno molte ore che dedicai, così, allo studio del quadrato del Rexol (così
lo denominai, dalla parola più enigmatica che vi era contenuta, per distinguerlo dal più
celebre quadrato del Sator). E solo in due occasioni mi accadde di scendere dalla nave in
terra africana per esplorare l'entroterra; avvenne quando il paesaggio che mi si parava
innanzi ricordava in qualche modo la "regione pianeggiante nei pressi della foce di
un fiume" di cui mi aveva parlato il marinaio che aveva ritrovato il vaso greco. Ma
alcun resto ritrovai che potesse anche solo ricordare un tempio eretto nel V secolo prima
di Cristo dalla civiltà fenicia.
Non potevo, però, dimenticare l'anfora decorata dal disegno di un'isola ad ovest
dell'Ispagna riportante le lettere talas, le cui lettere non erano altro che una
permutazione di atlas. E secondo il marinaio, il disegno dell'anfora sembrava
alludere a un'isola. Potevano coincidere l'isola talas con l'isola atlas?
Pensai di commettere un errore nel ricercare un Disegno che sottendesse i vari elementi di
cui ero in possesso, un elemento unificatore dei frammenti ritrovati nei molti luoghi da
me visitati. Ma la mente umana è naturalmente spinta a ritrovare legami sottili,
impercettibili similitudini che riconducono due realtà ad una terza, che le comprende, le
giustifica e le supera. Ed è per ciò che nulla è più buono di ciò ch'è trino, e se
il nostro corpo ha membra singole e doppie ma mai triple, è segno evidente
dell'imperfezione cui siamo condannati.
Ma, salva la validità di queste considerazioni, mi domandavo se stessi cercando qualcosa
di reale o soltanto dando realtà ad un prodotto della mia immaginazione. L'anagramma
ritrovato tra atlas e talas aveva un'esistenza precedente alla mia idea,
oppure gli avevo dato vita io con un processo mentale di permutazioni?
Ma ancora il problema era posto in maniera erronea. Atlas era anagramma di talas
ben prima ch'io ne permutassi le lettere. Ciò che mi domandavo era se un'intelligenza
precedente la mia avesse già ritrovato questa connessione tra le due parole e l'avesse
utilizzata su un'anfora e sulla chiglia di una nave in vista di un fine prestabilito.
Se la risposta fosse stata affermativa, avrebbe avuto significato la mia ricerca di un
elemento unificatore, di un progetto di cui vaso greco e lastra di legno erano parte.
Vi propongo, Padre, queste riflessioni per darvi un'idea dello sconforto in preda cui mi
trovai durante quei due anni che precedettero la spedizione nei mari del Nord. Avevo
l'impressione d'essere alla ricerca di un'araba fenice sempre sfuggente, ed invidiavo la
sorte dei volatili, che innalzandosi nell'aere potevano osservare la totalità delle terre
sotto la volta celeste. Ma allontanai presto quest'inconvenienti pensieri, per il timore
d'esser destinato a condividere la nefasta sorte d'Icaro.
Mi salvò da questi turbamenti una lettera che mi giunse da Lisbona. Lo studioso tedesco
con cui avevo tante volte discusso dei miei studi, Martin Behaim, mi riferì d'aver
trovato copia del Geos del filosofo Marcello, contemporaneo di Platone, riportante
una racconto udito dai sacerdoti delle "terre del Nilo". Il Faraone avrebbe
inviato una spedizione marittima verso le "remote miniere". Secondo lo storico
greco, in un tragico naufragio perì l'intero equipaggio, ad eccezione di un uomo, che
approdò su un'isola sconosciuta. Qui fu soccorso da un "drago d'oro", ultimo
sopravvissuto di una stirpe di 75 draghi sapienti, sterminata da "una stella caduta
dal cielo". L'uomo fu avvertito dell'imminente scomparsa della terra su cui si
trovava, a seguito di un immensa inondazione che si sarebbe scagliata sulla floridissima
isola. Egli riuscì a mettersi in salvo costruendo una solida nave e imbarcandosi per le
coste dell'Egitto [30].
La lettura di questo resoconto, mi richiamò alla memoria le parole di Filone
d'Alessandria, che predicava l'allegorismo come metodo che più profondamente penetra
entro il senso nascosto dei miti e dei libri sacri. E se mai avevo rifiutato il drago
rosso eptacefalo dell'Apocalisse [31], non volli affatto
negare un sostrato di verità storica nel racconto riportato dal filosofo Marcello.
Analizzando nuovamente i molteplici dati collezionati in anni di studio, mi accorsi che si
trattava dello stesso Marcello che sosteneva d'aver superato le Colonne d'Ercole e d'aver
raggiunto un arcipelago di isole, ultime vestigia d'una terra sommersa da una catastrofe.
Si trattava delle isole da cui pater Johannes aveva inviato il suo messaggio al
pontefice?
Furono questi i pensieri, le aspettative, le riflessioni che occuparono i giorni che
precedettero la spedizione oltre lo stretto che divide l'Ispagna dalle terre africane.
Lasciammo Genova il 21 febbraio 1477 [32], in una giornata
molto calda nonostante la stagione. Si trattava del primo viaggio d'esplorazione da me
compiuto.
La sola tensione che s'insidiava durante le navigazioni mercantili era quella che il
carico potesse in qualche modo usurarsi per la presenza di acqua nelle stive, o che la
mancanza del vento prolungasse eccessivamente la durata del viaggio; in tal caso i viveri
e l'acqua sarebbero stati suddivisi in razioni sempre minori, con conseguente calo di
energie vitali per tutto l'equipaggio.
Durante questo nuovo viaggio, tuttavia, si insinuò in me una forma di tensione
completamente altra, mai vissuta né immaginata. La progressiva separazione da ciò che
era il mondo da me conosciuto verso l'ignota linea dell'orizzonte occidentale, era un
lento ma inesorabile addentrarmi in un labirinto sconosciuto senza l'ausilio d'un filo
d'Arianna. Ogni mio pensiero era trasfigurato dalla temuta irreversibilità di ciò che
stavo compiendo. Invertendo la rotta, saremmo con ogni probabilità tornati sui nostri
passi. Ma un qualsiasi errore nella rilevazione della latitudine, ogni imprecisione nel
calcolo delle distanze e della traiettoria si sarebbe rivelato forse troppo tardi per
porne rimedio. Ci saremmo trovati, così, in un tratto di mare mai segnalato da alcuna
carta, in un luogo dal quale non saremmo stati in grado di percorrere la via inversa.
Ed è con somma sincerità, Padre, che vi confesso i miei timori intorno all'ammiraglio
Colón, il quale - già vi dissi - era stato in grado di dirigere un'intero equipaggio
sulle coste algerine, senza che alcuno sospettasse nulla. Più volte mi avvicinai alla
bussola, al fin di controllare l'assenza di magneti occultati, e volli personalmente
compiere la maggior parte delle rilevazioni celesti con l'uso del quadrante. Così
facendo, potei seguire in dettaglio il tragitto che, presumibilmente, seguimmo
oltrepassate le Colonne d'Ercole. Abbandonammo la direzione ovest per costeggiare le terre
portoghesi verso nord, e dopo alcuni giorni, invece di deviare a levante verso le coste
francesi, proseguimmo verso settentrione. Sfumò, così, una segreta speranza che avevo di
compiere una tappa intermedia a La Rochelle, ma forse fu Iddio a guidare il voler
dell'ammiraglio. Poiché se nella città francese era sorto in me il desiderio di prendere
il largo, ivi sarebbe forse anche svanito, vinto dalle tensioni che andavo accumulando e
dal timore di violare confini posti dall'Onnipotente nel terzo giorno della Creazione,
quando raccolse le terre e le separò dall'acqua.
In tal caso avrei forse abbandonato la spedizione, accusando probabilmente indisposizioni
fisiche. Confesso con vergogna d'aver più volte pensato di pronunziar falsa
testimonianza, nel caso in cui fossimo approdati a La Rochelle per rifornimenti, per
abbandonare l'impresa che, forse in modo avventato, avevo deciso di affrontare. E fu per
questa disposizione alla menzogna che Dio mi punì con una dissenteria molto violenta, la
quale mi costrinse a letto per almeno dieci giorni. Il mio fisico, cresciuto in abbazie e
conventi, non era in grado di assumere alcuni prodotti consumati a bordo, che invece
trovavano consenso tra gli altri uomini dell'equipaggio.
Fu una penitenza indubbiamente meritata, che però incrementò ancor più i miei timori
per l'impossibilità, che ne derivò, di seguire l'esatto percorso seguito dalla nave.
Mi sollevò il fatto che, nonostante le mie condizioni di salute, l'ammiraglio Colón mi
aggiornasse continuamente sull'andamento degli studi, e più d'una volta mi propose di
analizzare alcune tabule compilate con cura, sulle quali comparivano decine e decine di
numeri relativi a correnti marine, a rilevazioni dei venti, a costellazioni stellari e
alla fauna marittima incontrata. Fu difficile per me districarmi in mezzo a calcoli
oltremodo complicati, nei quali, invece, Cristobal sembrava trovarsi perfettamente a suo
agio. Lo vidi più volte adirato per l'imprecisione nell'uso del quadrante da parte di
uomini dell'equipaggio. In queste situazioni, prendeva in mano lui stesso lo strumento, e
rilevava personalmente distanze ed angolazioni, al fin di non commettere errori che
avrebbero pregiudicato l'intera spedizione.
Se nella mia narrazione sono stato oscuro sulle finalità del viaggio che avevamo
intrapreso, eccellentissimo Padre, questo è dovuto all'identica ignoranza ch'io avevo in
quei giorni sulle terre che l'ammiraglio avrebbe toccato. Non fu prodigo di particolari
nel definire i dettagli della spedizione. Ed io, con tutto l'equipaggio, fui tenuto
all'oscuro della vera natura degli studi che Cristobal avrebbe compiuto. Ne nacquero voci
d'ogni genere, più maligne che benigne a dire il vero. Incuriosito per la vividissima
fantasia di cui sembravano dotati i marinai con cui mi ero imbarcato, ne interrogai
parecchi, promettendo loro che non avrei rivelato ad alcuno i particolari che mi avrebbero
confidati.
Seppi, così, che secondo una voce comune, l'ammiraglio era associato ad una confraternita
per la quale compiva le esplorazioni. Altri mi riferirono che Cristobal apparteneva ad una
famiglia che da secoli praticava la navigazione [33],
e che aveva intrapreso la via del mare per vendicare un suo avo. E qui le interpretazioni
fiorivano in modo impressionante. Secondo alcuni, un suo antenato era stato ucciso durante
uno scontro navale; secondo altri sarebbe stato abbandonato sulle coste dell'Africa e
lasciato morire insieme all'intero equipaggio; per altri ancora l'antenato di Cristobal
sarebbe perito in seguito ad una violentissima tempesta che avrebbe distrutto
l'imbarcazione a bordo della quale si trovava. Non mancava chi sostenesse che era stato
divorato da mostri marini lunghi cento volte un cavallo...
Non era la prima volta che udivo marinai fantasticare sulle imprese del proprio
ammiraglio. E non mi stupivo: lo stesso avveniva nei piccoli villaggi, in cui racconti
fondati su qualche elemento di verità, passando di bocca in bocca, acquistavano mille
diverse colorazioni a seconda di narratori, per trasformarsi in storie completamente
differenti dalle originali, ma indubbiamente più affascinanti e curiose.
E la nave era un piccolo villaggio, in cui convivevano odi ed invidie, mitigati da un
senso di solidarietà che sorgeva improvvisamente nei momenti in cui problemi maggiori
colpivano indistintamente l'ammiraglio e l'ultimo marinaio.
Vi descrivo questi particolari, Padre, perché possiate rendervi conto anche voi di cosa
significhi vivere per settimane sul quel microcosmo che è una nave.
Ma il mio discorso non si allontani dalle voci udite intorno all'ammiraglio, che presto
verranno contraddette quando dirò della terra che avvistammo dopo quattro settimane di
navigazione. Si trattava delle coste della Frixlanda [34],
terra di cui nel passato aveva parlato Tolomeo. Cristobal ordinò che alcuni uomini
restassero a bordo della nave, al fin di non interrompere la misurazione del tempo per
mezzo delle tre clessidre di bordo. Ad altri ordinò di rilevare ad ogni ora la direzione
del vento e l'intensità, da calcolarsi annotando l'angolo formato da un nastro di seta
con l'asta metallica cui questo era fissato. Distribuì, in questo modo, un gran numero di
tabelle da compilare, minacciando dure punizioni per chi non avesse eseguito gli ordini
con cura. Agli uomini che sbarcarono, comandò di eseguire ispezioni del territorio
circostante. Avrebbero dovuto segnalare la presenza di qualsivoglia iscrizione o simbolo
prodotta da esseri umani. Fece calare dalla nave un grosso cassone che doveva aver tenuto
celato nella sua cabina. Nessuno, seppi in seguito, ne conosceva il contenuto.
Avvicinatosi a me, mi domandò di seguirlo. Fummo accompagnati da due uomini
dell'equipaggio, che ci seguirono trasportando la pesante cassa. Ci inoltrammo in una
folta vegetazione che partiva dal fondo della spiaggia su cui sbarcammo, e in pochi minuti
raggiungemmo una radura al centro della quale sorgeva una roccia tondeggiante.
Posata la cassa a terra, i due marinai furono invitati ad allontanarsi. Cristobal mi
rivolse la parola scusandosi per avermi tenuto all'oscuro così a lungo intorno alla
natura degli studi che era venuto a compiere su quest'isololotto. Mi disse che aveva
richiesto la presenza di un religioso a bordo della nave per potergli affidare tutte le
conoscenze acquisite in anni di navigazione, affinché se anche un incidente lo avesse
coinvolto, le verità cui era giunto non andassero disperse insieme alle sue spoglie
mortali.
Mi supplicò di non rivelare a nessuno ciò che stava per dirmi, ed io gli promisi che
avrei tenuto il massimo riserbo su qualunque cosa egli mi avesse riferito. Vi parrà,
Padre, che con questo mio scritto io rinneghi la promessa fatta, anche quella di tacere i
nomi di coloro le cui confidenze ricevetti. Ma se non fossi convinto del fatto d'essere
l'ultimo uomo a poter rendere testimonianza dei luoghi che ho visitati, sicuro che mai
più alcuno vi potrà mai accedere né potrà descriverli alla cristianità, non
giustificherei affatto la relazione che ne sto dando. Sappiate, a mia parziale discolpa,
che attesi il 20 maggio 1506, giorno in cui la morte colse l'ammiraglio, per intraprendere
la scrittura di questo resoconto. Ed è per la profonda fiducia ch'io ho in voi, o Padre,
che vi affido queste pagine, le quali potranno, a vostra discrezione, esser svelate
all'intera cristianità, o custodite a salvaguardia di verità che potranno un giorno
esser comprese da uomini che verranno dopo di noi.
Ma non proseguirò più oltre con queste giustificazioni, riportando invece fedelmente gli
eventi descrittimi da Cristobal, con la speranza che la memoria mi assista e che la
ricostruzione che ne darò sia il più possibile simile a ciò che realmente visse e udì
nell'anno 1469, allorché si imbarcò a bordo della caravella Prometeo. Il capitano della
nave era un basco di nome Aramburu, intorno al cui conto circolavano voci tutt'altro che
rassicuranti. Di lui si diceva che avesse fatto un patto con il diavolo, o che avesse
venduto la sua anima per ottenere misteriose informazioni. Pochi marinai accettarono di
lavorare sulla sua nave. Tra costoro, primeggiava un nostromo inglese chiamato Devil Hoof
Willy. Se davvero nomen est omen [35], Cristobal non si
trovava affatto in buona compagnia.
Willy e Aramburu trascorrevano molte ore a discutere e, a dire di alcuni, a complottare.
La caravella era "ufficialmente" diretta verso l'Asia, ma giunta all'altezza
delle Canarie, il capitano diede ordine di cambiare rotta. La nave navigò verso
nord-ovest, in un mare sconosciuto che - secondo l'equipaggio - conduceva ai confini del
mondo. Il tentativo di ammutinamento venne immediatamente sedato dall'implacabile durezza
di Aramburu, e la nave divenne teatro di una vera e propria carneficina. Il giovane
Cristobal dovette assistere, suo malgrado, a ogni sorta di efferatezza. Pur con
l'equipaggio decimato, la nave proseguì lungo la nuova rotta. Di tanto in tanto il
capitano e il nostromo si chiudevano in cabina, a consultare una misteriosa carta nautica
su cui Cristobal aveva sentito strane dicerie. Willy e Aramburu l'avrebbero presa in un
luogo "proibito", dannando per sempre la loro anima. Dopo quasi due mesi di
navigazione, quando ormai l'equipaggio era allo stremo delle forze, comparve la costa
d'una terra sconosciuta. Si trattava di un arcipelago di isole di cui l'intera
cristianità non aveva mai avuto notizia. Dopo che furono sbarcati, tra Aramburu e Willy
scoppiò un furioso litigio. Con un colpo di scure il nostromo spaccò la testa al
capitano, poi fece immediatamente salpare le ancore e riprendere la navigazione in
direzione ovest, verso l'ignoto. Dopo alcuni giorni scoppiò una pestilenza che condusse
ad un ammutinamento definitivo. Willy venne ucciso e gettato in mare, e la caravella
cambiò rotta, prendendo la via del ritorno. Il giovane Cristobal e un gigante turco di
nome Ahmed, che aveva preso il comando, si orientarono con le misteriose carte di
Aramburu, ma dopo una vera e propria odissea, quando la nave era ormai vicina alle
Canarie, scoppiò un terribile fortunale. La caravella si schiantò contro uno scoglio, e
affondò insieme all'equipaggio. Solo Cristobal riuscì a salvarsi, portando con sé le
misteriose carte nautiche. Egli era convinto che le isole raggiunte si trovassero al largo
delle coste dell'Asia; su questa esperienza fondava la sua sicurezza che la terra fosse
sferica. Lo studio delle carte nautiche di Aramburu, però, gli suscitarono alcune
domande. Si chiedeva chi potesse aver disegnato carte così dettagliate di zone ancora
sconosciute alla cristianità. Qualcuno doveva aver già esplorato le zone così
accuratamente descritte, e la mia mente si rivolse immediatamente a pater Johannes.
Cristobal mi spiegò che sulle mappe nautiche non compariva l'arcipelago, bensì un'unica
isola che comprendeva tutte le dieci terre emerse che incontrammo. Estrasse dalla cassa
che aveva con sé una pergamena arrotolata, che svolse con cautela per non sgualcirla.
E vidi, a destra della terra descritta dall'ammiraglio, l'esatta descrizione delle coste
europee e di quelle africane, sino alla Palestina e alle terre d'Egitto. Iscrizioni latine
permettevano l'identificazione dei vari luoghi descritti. E tra gli altri, vi ritrovai il
nome che tante volte era stato oggetto delle mie supposizioni e congetture. Il territorio
della Grecia era definito Rex Olympii. Avevo ritrovato l'origine di quel rexol
che mi aveva tanto indotto a riflettere. Prese forma nella mia mente un possibile
significato che, così, acquistavano le parole del quadrato: morì ad ovest della Grecia
l'isola Atlas. La mappa riportava effettivamente una territorio circondato dalle acque,
nominato Rex Maris. Si trattava della terra di cui era rimasto soltanto
l'arcipelago di dieci isole raggiunto dalla nave di Aramburu. Pensai potesse trattarsi
dell'arcipelago raggiunto dal filosofo greco Marcello. La sua denominazione riportava alla
mia mente l'anfora ritrovata sulle coste dell'Africa, riportante il disegno di un'isola
identificata con le lettere talas, frammento del sintagma talassas teos, corrispondente al
latino Rex Maris. Nessuna connessione con atlas, dunque, ma un'evidente
legame con la terra della carta di Aramburu.
La distruzione in cui poteva essere incorsa, riportava la mia mente all'immane cataclisma
descritto da Proclo e Platone, da Ammiano Marcellino e Teopompo, da Crantore di Soli e
Posidonio d'Apamea, da Plinio ed Ecateo di Mileto, che avrebbe colpito una terra che si
trovava oltre le Colonne d'Ercole.
La carta nautica riportava una sola grande isola; da ciò si deduceva che essa fosse stata
realizzata precedentemente il cataclisma, oppure che si trattasse della copia d'una mappa
precedente. Quest'ultima ipotesi era la più probabile. La fattura della carta, infatti,
non sembrava affatto antica di secoli.
All'estremità sinistra della carta si trovava un'ulteriore ed estesissima terra,
segnalata col nome di Quetzalcoatl [36].
Si trattava, con ogni probabilità, della costa orientale del Cathai.
Quanto più ragionavo su ciò che avevo davanti agli occhi e su ciò che avevo udito,
tanto più ero affascinato dalla convinzione d'aver tra le mani la prova di tutto ciò che
avevo congetturato per anni.
Ma non mi attarderò sulle emozioni che mi colsero a tali mirabili rivelazioni. Dirò,
invece, che l'ammiraglio riprese a descrivere gli eventi che lo portarono ad intraprendere
questa spedizione.
Negli anni successivi al 1469 continuò a navigare per conto della famiglia Di Negro,
confessando d'aver preso più volte parte ad azioni corsare per conto del re Renato
d'Angiò. Conobbe decine di marinai non solo italiani, ma provenienti da ogni parte della
Francia, della Ispagna e del Portogallo. Tentò invano di ritrovare uomini che avessero
lavorato con Aramburu, al fin di interrogarli sui viaggi precedenti compiuti dal capitano
basco. Né riuscì a contattare alcun marinaio che avesse navigato con Devil Hoof Willy.
Venne, tuttavia, a conoscenza di una storia narrata dai marinai durante le lunghe notti di
guardia trascorse sui pontili. Raccontavano di una nave che aveva lasciato il porto di
Genova e raggiunto i confini della terra. Da tale spedizione tornò soltanto un terzo
dell'equipaggio. Tutti i superstiti furono interrogati su ciò che avevano trovato
all'estremità occidentale del mondo, ma nessuno osò far parola di ciò che era apparso
ai loro occhi. Tutti morirono senza lasciare alcuna testimonianza. Secondo molti marinai,
esisteva la prova di questa spedizione in registri di navigazione custoditi nel porto di
Genova. C'era assoluta discordia nella datazione di questo viaggio. Se qualcuno parlava
dell'inizio del secolo come possibile data, altri sostenevano che tale spedizione fosse
avvenuta prima del XII secolo.
Cristobal ricercò a lungo il registro di cui si parlava nel racconto, convincendosi che
si trattasse soltanto di una leggenda. Ma l'incontro con un marinaio amalfitano gli fece
cambiare idea. Costui gli riferì che nella seconda metà del XII secolo un suo antenato
navigatore era partito da Genova a seguito di una spedizione organizzata da una potente
confraternita religiosa di cui non specificò il nome. Dopo alcuni mesi, la nave con la
quale era partito ritornò nel porto ligure, ma dell'equipaggio, composto da circa
sessanta membri, erano rimpatriate soltanto 19 persone. Non si ebbe alcuna notizia dei
quarantuno uomini dispersi. Tra questi ultimi si trovava l'avo del marinaio amalfitano. I
famigliari dell'uomo contattarono alcuni dei marinai superstiti, ma da costoro non ebbero
alcun aiuto. Questi, infatti, non sopravvissero più di qualche mese dal ritorno a Genova,
e nel diario di Paolo, figlio dell'amalfitano scomparso, vennero descritti come
"mutilati nelle membra e privi dell'uso della parola". Tale resoconto, compilato
presumibilmente intorno all'anno 1169, era stato conservato dalla famiglia del marinaio
incontrato da Cristobal, ed attirò l'attenzione dell'ammiraglio per la presenza di dati
che avrebbero potuto chiarire la dinamica del viaggio compiuto da Genova nella seconda
metà del secolo XII.
Paolo, purtroppo, non riportava la lista completa degli uomini dell'equipaggio, ma si
limitava a segnalare i nomi di coloro che avevano fatto ritorno in patria. Nondimeno tale
elenco risultava estremamente interessante, innanzitutto per la presenza di dati che
permettevano di contattare i discendenti dei superstiti, ma ancor di più per i bizzarri
nomi che vi comparivano.
Se, infatti, si trovavano "Antonio da Gaeta" e "Vincenzo da Sestri",
non mancavano nomi come "Natzac da Tikal", "Copan da Palque" e
"Votan Chivim da Qezalcolat".
L'ammiraglio Colón non poté fare a meno di ritrovare una notevole somiglianza tra la
città (o il territorio) di Qezalcolat e il nome della terra all'estremo ovest
della mappa di Aramburu, Quetzalcoatl. Questo particolare poteva soltanto
significare che la nave di Genova era diretta verso le coste dell'Asia seguendo la via
dell'ovest. Non potei non pensare alla spedizione di pater Johannes, il quale
sosteneva di essere diretto da Genova verso Cadice, e di aver deviato dalla rotta
originaria, raggiungendo, così, un'Arcadia sconosciuta che poteva identificarsi con
l'arcipelago del Rex Maris o con il territorio denominato Quetzalcoatl.
Riflessioni simili nacquero nella mente dell'ammiraglio, che nonostante non possedesse il
manoscritto di Cîteaux, aveva intuito la possibilità di raggiungere le terre della mappa
di Aramburu.
Esisteva, però, una complicazione che avrebbe reso il viaggio molto più arduo di quanto
apparisse. A prima vista non si trattava di impresa troppo difficoltosa raggiungere una
regione ben segnalata su una carta nautica. Qualsiasi navigatore con un minimo di
esperienza vi sarebbe riuscito. Ciò che rendeva arduo il compito di Cristobal fu un
particolare che non avevo notato. La mappa, infatti, non era integra. Si trattava,
infatti, di due frammenti accostati e cuciti l'uno con l'altro, tra i quali in origine
doveva trovarsi una porzione di oceano ormai perduta. Era, dunque, impossibile misurare la
distanza che intercorreva tra le coste portoghesi e l'isola del Rex Maris, in
quanto era sconosciuta l'ampiezza del frammento di mappa perduto. Per questa ragione
risultava arduo, se non impossibile, lo studio di una traiettoria che
incontrovertibilmente avrebbe condotto all'arcipelago che ivi sorgeva. Domandai
all'ammiraglio in che modo egli pensava di poter ritrovare le isole sulle quali era
approdato otto anni prima. Egli mi disse che nel corso degli studi eseguiti con il turco
Ahmed durante il viaggio di ritorno, ritrovò tra le carte di Aramburu un riferimento
all'isola su cui in quel momento ci trovavamo: la Frixlanda. Sull'isola si sarebbe trovata
una meridiana che, all'alba del giorno di equinozio primaverile, avrebbe proiettato
l'ombra dello gnomone infisso nel suo centro verso l'esatta direzione in cui si trovava
l'arcipelago.
Mi accorsi dell'eccezionale abilità dell'ammiraglio Cristobal, che era riuscito a
sbarcare sulla terra di Frixlanda il 20 marzo, la sera immediatamente precedente
l'equinozio di primavera, calcolando in modo eccellente i tempi che gli sarebbero occorsi
per raggiungerla. Un minimo ritardo avrebbe compromesso l'intera spedizione. Capii
immediatamente le intenzioni di Colón. Gli sarebbe bastato attendere la mattina
successiva per annotarsi la direzione verso cui il sole avrebbe proiettato l'ombra della
meridiana, che identificai con la roccia tondeggiante che avevo vista al centro della
radura. Ci dirigemmo insieme verso tale costruzione, ed ammetto che ne rimasi un po'
deluso. Non riportava alcuna iscrizione, alcun particolare che permettesse, a chi non ne
conoscesse la funzione, di accorgersi che si trattava di un segnale lasciato per indicare
l'esatta ubicazione dell'arcipelago. Aveva un diametro di circa due metri, ed al centro di
essa si trovava un foro inclinato, all'interno del quale si sarebbe potuta introdurre
un'asta metallica.
Cristobal aprì il suo taccuino, e mi mostrò un disegno da lui stesso realizzato. Si
trattava di una copia della pagina di Aramburu nella quale egli aveva ritrovato il
riferimento alla meridiana di Frixlanda.
Nel centro della pagina era riportata una descrizione della costa portoghese e delle terre
a nord di questa. L'isola di Frixlanda era segnalata in rosso. A destra di questa,
comparivano una 'T' rovesciata, e tre lettere 'S': la prima a sinistra, la seconda a
destra, la terza in alto. Il disegno che si formava era il seguente:
Poco più in basso si trovava il simbolo , corrispondente alla costellazione dei Pesci.
Il messaggio che, con grande ingegno, l'ammiraglio ne aveva tratto era quello che mi aveva
illustrato in precedenza. La 'T' rovesciata e le 'S' si riferivano ad una meridiana: le
tre lettere erano le iniziali dei termini Sine Sole Sileo [37], la cui origine, Padre, vi sarà indubbiamente nota; la forma della
"T", invece, ricordava la base di una meridiana su cui era fissato uno gnomone.
La presenza del simbolo dei Pesci non poteva che riferirsi all'equinozio, data in cui il
sole sorge esattamente ad est davanti alla suddetta costellazione.
La funzione della meridiana non era espressamente descritta nelle carte di Aramburu, ma
Cristobal, con una capacità di immaginazione florida quanto rigorosissima, aveva cercato
di visualizzare nella sua mente l'alba del 21 marzo osservata dall'isola indicata in
rosso. Il sole, sorgente ad oriente, avrebbe proiettato ad ovest l'ombra dello gnomone: da
ciò dedusse che, con ogni probabilità, la direzione indicata dalla meridiana avrebbe
segnalato la rotta da seguire per raggiungere l'arcipelago raggiunto otto anni prima a
bordo della Prometeo.
E se mai foste tentato di apprezzare l'ammiraglio soltanto per l'acutissimo ingegno di cui
era dotato, Padre, vi dirò di lui che estrasse dalla cassa che aveva portato con sé un
messale che mi consegnò tra le mani. Si diresse, poi, verso la nave, e fece sbarcare
l'intero equipaggio, affinché tutti potessero assistere alla celebrazione eucaristica. Si
assicurò soltanto che un uomo rimanesse a bordo per controllare le clessidre.
Innalzammo un piccolo altare in pietra, e nel silenzio più sacro, le mie parole
riecheggiarono nei cuori di tutti. E lessi le parole dell'Ecclesiaste
Magnificenza dell'empireo è il limpido firmamento,
e l'aspetto del cielo è una visione di gloria.
Il sole, mentre appare splendente all'orizzonte:
quale mirabile ornamento, opera dell'Altissimo!
A mezzogiorno esso infiamma la terra,
e dinanzi al suo calore, chi può resistere?
Grande è il Signore che l'ha fatto,
e ai cui ordini esso compie velocemente il suo corso. [38]
Ed innalzammo a Dio la lode somma con un salmo di Davide
Il cieli narrano la gloria di Dio
e il firmamento predica le opere delle sue mani.
Al sole ha innalzato il Signore una tenda,
ed egli, simile a sposo,
s'avanza lieto quale prode
a percorrere il suo giro.
Da un estremo del cielo ha la sua levata,
e all'altro estremo compie il suo giro:
nulla sfugge al suo calore. [39]
Invocammo l'Altissimo come nostra guida, con la preghiera di Mosé, in cammino verso la
Terra Promessa
Tu farai entrare il suo popolo e lo pianterai sul monte della tua eredità,
luogo che tu hai fissato per tua dimora, Jahvé,
santuario che le tue mani hanno preparato, o Signore [40]
E sentii nascer dal cuore un canto di ringraziamento che proruppe dalle mie labbra senza
ch'io quasi me ne accorgessi.
O Altissimo Padre Onnipotente,
che fai sorgere ad oriente la luce che ci illumina,
e la fai ridiscendere a ponente per donarci l'oscurità,
guidaci attraverso i flutti e le correnti
come guidasti nel deserto i figli d'Israele,
e fa' percorrere anche a noi,
che portiamo la luce dell'Evangelo,
la via seguita dall'astro del giorno.
Risplenda su tutta la terra la tua potenza,
e giunga anche in quei luoghi
ove il nome del Tuo Figlio e Nostro Signore Gesù Cristo,
è ancora sconosciuto.
Il nostro viaggio rifulga a maggiore Tua gloria,
e noi innalzeremo il Tuo nome
nei secoli dei secoli.
Vi riporto queste parole, Padre Juan Pérez, affinché vi cogliate il trasporto
dell'animo con cui le pronunciai, spinto come fui, da ciò che avevo udito
dall'ammiraglio, ad innalzare all'Altissimo una lode spontanea e magnifica.
L'intero equipaggio rispose con il rituale amen, ma credo che nessuno potesse aver
compreso a quali terre sconosciute mi stessi riferendo. I più dovettero pensare alle
regioni africane, in cui la cristianità ancora non si era diffusa.
Poco prima dell'alba del 21 marzo 1477 Cristobal scese dalla nave e si diresse verso la
radura della meridiana, ordinando che nessuno lo seguisse. Vi confesso, Padre, d'esser
stato ferito nell'orgoglio per non esser stato convocato dall'ammiraglio ad assistere al
sorgere del sole. Ma con animo sgombro da rancori, innalzai all'Altissimo una preghiera di
lode, affidando alla Sua Divina Provvidenza il compito di Cristobal Colón, dal cui esito
sarebbe dipeso il successo della nostra missione. E non potei far altro che ripetere più
volte fiat voluntas tua...
L'ammiraglio ritornò sulla nave dopo alcune ore, e diede ordine di riprendere la
navigazione. Fu interrogato da alcuni marinai sulla direzione da seguire, ed egli allungò
un braccio verso l'orizzonte, puntando verso sud-ovest.
Finalmente mi chiamò con sé nella sua cabina, e mi mostrò una carta disegnata da poco.
Una lunga linea tracciata in direzione sud-ovest attraversava l'oceano partendo dall'isola
che avevamo da poco abbandonato, e puntando verso l'ignoto. Egli non sapeva, infatti,
quanto distasse l'arcipelago indiano né se davvero tale percorso vi conducesse.
Nei giorni che seguirono non fummo assistiti dalla buona sorte. Il vento che per una
settimana ci spinse verso sud-ovest con una velocità elevata disparve senza ragione e la
nave si trovò in balia delle onde per almeno dieci giorni. L'equipaggio incominciò a
dare segni di irrequietezza, e più volte mi accadde di dover intervenire per sedare
l'insorgere di liti tra marinai.
Non mi attarderò a descrivere la tensione che si accumulò in quei momenti. Dirò invece
che l'ammiraglio Cristobal temette di perdere il controllo dell'equipaggio, e quasi senza
dubbio fu il ricordo delle efferatezze cui assistette sulla Prometeo che lo spinsero ad
invertire la rotta e tornare verso le coste europee.
Allora come oggi non pensai che l'ammiraglio volesse, con quel gesto, abbandonare la
speranza di raggiungere, un giorno o l'altro, le terre dell'ovest. Rimasi, però, turbato
per l'inversione di rotta. Forse non era dovuta soltanto all'irrequietezza creatasi a
bordo. Non seppi mai, Padre, cos'altro potesse aver turbato Cristobal, anche se il viaggio
di ritorno mi fece formulare alcune ipotesi intorno al suo comportamento.
Giunti a poche leghe dalle coste portoghesi, infatti, ordinò che ci si dirigesse verso
nord. Il comportamento inspiegabile dell'ammiraglio non fu accolto con favore dagli uomini
equipaggio, che domandarono ragione di questa deviazione. Cristobal promise che avrebbe
mostrato loro qualcosa di mai visto dagli occhi degli europei. Sono ancora convinto che
non fu tanto questa promessa, quanto quella che la deviazione avrebbe allungato il viaggio
soltanto di dieci giorni, a convincere l'equipaggio di seguire l'ammiraglio. E così fu.
Dapprima pensai che volesse ritornare sulla terra della meridiana; poteva, infatti, aver
invertito la rotta dopo essersi accorto di un errore nella rilevazione della traiettoria.
Ma questa ipotesi crollò nel momento in cui mi accorsi che sarebbe stato del tutto
inutile tornare sull'isola di Frixlanda: per procedere ad una ulteriore rilevazione,
avrebbe dovuto attendere il prossimo equinozio.
La nave, infatti, superò l'isola sulla quale eravamo già sbarcati, proseguendo verso
nord. Cristobal mi rivelò che si stava dirigendo verso le coste inglesi [41],
e quando gli domandai motivo di questa deviazione inaspettata, egli mi disse che durante
la navigazione dall'isola della meridiana verso sud-ovest aveva attraversato alcune
correnti marine che sembravano giungere dal lontano e sconosciuto occidente e, secondo le
sue rilevazioni, dovevano lambire le coste inglesi. Egli pensava che, se davvero a ovest
ci fossero state le Indie, qualche oggetto da là proveniente poteva aver attraversato il
mare oceano ed esser giunto alla deriva proprio sulle spiagge verso le quali erano
diretti. Non specificò la natura degli oggetti che pensava di ritrovarvi. Mi confidò
soltanto che la speranza di rinvenire qualcosa era molto forte: non sarebbe stato in
grado, altrimenti, di giustificare ai marinai la deviazione compiuta.
Nel sesto giorno ancora non comparivano terre all'orizzonte. Al tramonto la nave entrò in
un tratto di mare sulla cui superficie galleggiavano molte alghe e vegetali marini. Fu un
marinaio a notare, sul fianco destro della nave, la presenza in acqua di alcune assi di
legno unite da un metallo ricurvo. Dapprima la scoperta non destò stupori. Poteva
trattarsi di un frammento appartenente ad una nave o ad una cassa costruita dagli inglesi.
Durante la notte, un altro marinaio avvistò un grande pannello ligneo inciso a fuoco,
riportante il disegno di un monte sovrastato dal sole, intorno al quale piccoli simboli
volevano probabilmente indicare degli esseri umani. L'intero equipaggio si radunò sul
pontile per osservare tali manufatti, e tale lastra attirò l'attenzione di tutti sinché
il grido di un marinaio non richiamò tutti sul fianco sinistro della nave. L'oscurità
non permetteva di osservare nei particolari ciò davanti cui si trovavano, ma il buio non
era tale da non consentire di riconoscere nell'oggetto galleggiante sull'acqua un corpo
umano.
I suoi lineamenti erano differenti da quelli di qualunque altro uomo esistente nel nostro
mondo. E non era certo la consunzione delle membra a donare a quel volto una fisionomia
così particolare e sorprendente. I marinai si ritrassero inquieti, pensando al cadavere
di un demonio. L'ammiraglio ordinò che il corpo venisse recuperato dalle acque. Si
calarono due uomini, i quali poterono avere una visione più precisa del cadavere. Essi si
accorsero che si trovava adagiato all'interno di una rudimentale zattera, la quale gli
aveva impedito di andare a fondo. Furono gettate due corde che gli vennero assicurate al
collo e alle caviglie. Non fu difficile sollevare l'uomo, in quanto si trovava in stato di
rigidità cadaverica ed era interamente ricoperto da scaglie di ghiaccio che lo rendevano
ulteriormente rigido.
Nessuno osò toccare quel corpo, che fu adagiato sul pontile della nave provocando un
rumore sordo. Cristobal rassicurò gli uomini dell'equipaggio, dicendo loro che non si
trattava di un demonio né di uno spirito del mare; l'uomo veniva dal Cathai, ed era stato
trasportato in quel luogo dalle correnti del mare oceano [42].
Se molti marinai erano a conoscenza delle teorie di Paolo dal Pozzo intorno alla
possibilità di raggiungere le Indie navigando verso ovest, il corpo davanti a cui si
trovavano rendeva questa teoria non soltanto probabile, ma una sicurezza. A bordo della
nave l'entusiasmo per il ritrovamento crebbe, e furono in molti a sognare laute ricompense
per aver portato in Europa la prova di un fatto che avrebbe sconvolto l'intero traffico
marittimo del mondo.
I dieci giorni, nei quali secondo la promessa dell'ammiraglio si sarebbe svolta questa
deviazione, diventarono due settimane, ma l'attenzione degli uomini dell'equipaggio era
tutta rivolta al "cinese" che avrebbe assicurato loro una ricchezza pochi giorni
prima insperata.
Rientrammo nel porto di Genova il 23 aprile, e ricordo in modo particolare il saluto con
cui mi congedai da Cristobal Colón. Mi avvicinai a lui, ed egli con grande serietà alzò
una mano al livello del volto. Poi l'abbassò, e chinando la testa, chiese la mia
benedizione. Sollevando il capo, si assicurò ch'io non riferissi ad alcuno ciò che avevo
udito durante quel viaggio, ed io chinai il capo chiudendo gli occhi. Quando li riaprii lo
vidi allontanarsi. Era mia opinione che non ci saremmo più rivisti. Mi sarei accorto in
seguito che la Volontà Divina è ben lontana dal seguire la logica degli uomini.
Vi dirò, Padre Juan Pérez, che la mia mente era molto confusa, e tentavo con difficoltà
di connettere i vari fatti cui avevo assistito e che mi erano stati rivelati
dall'ammiraglio.
Che cosa si trovava a levante delle colonne d'Ercole? La mappa di Aramburu e il cadavere
ritrovato sembravano indicare che ad ovest si trovassero le Indie, con il regno del Gran
Cane e le terre del Cathai. La stessa mappa riportava una vasta isola a sud-ovest delle
coste portoghesi. E il viaggio della Prometeo era approdato ad un arcipelago che poteva
corrispondere all'isola segnalata sulla carta: si trattava forse dei resti di un
cataclisma che in un lontano passato l'aveva distrutta.
Paolo dal Pozzo aveva ragione: le Indie - denominate sulla mappa con il nome di Quetzalcoatl
- erano davvero raggiungibili navigando verso ovest.
Tra l'Europa e le Indie, però, si trovava nel passato un territorio, il Rex Maris,
di cui rimase soltanto un arcipelago, forse in seguito ad un cataclisma che lo fece
sprofondare negli abissi.
Ma continuavo a chiedermi dove fosse giunto pater Johannes. Forse nelle Indie.
Eppure Marco Polo non descriveva uomini dalla pelle rossa. Forse nell'arcipelago già
raggiunto da Colón. Eppure l'ammiraglio non aveva notato alcun abitante sulle isole da
lui toccate. Mi trovavo in una situazione in cui ogni ipotesi sembrava più assurda della
precedente, e non riuscivo a mettere insieme i moltissimi elementi fino ad allora
accumulati.
Che cosa mi stava chiedendo l'Onnipotente? Per quale ragione mi aveva eletto custode del
manoscritto di pater Johannes? Quali gesti avrei dovuto compiere, per adempiere la
sua volontà?
Non possiedo la sicurezza d'aver sempre agito Ad Maiorem Dei Gloriam, ma posso
assicurare alla vostra eccellenza che ogni giorno la mia lode per le meraviglie che
l'Altissimo mi faceva pregustare si alzava solenne, la mia ammirazione il cosmo non aveva
più limiti, e dal Creato risaliva all'Artefice che lo aveva plasmato.
Non è, dunque, per orgoglio intellettuale, quanto invece per sete di verità, che decisi
di mettermi in contatto con i discendenti degli uomini che ritornarono dalla missione del
XII secolo oltre le Colonne d'Ercole. Possedevo già copia della lista tratta dal diario
di Paolo d'Amalfi, ed attesi che Enrico Spinola mi convocasse per una spedizione
mercantile. Fui inviato a Lerici, e da qui potei raggiungere in meno di due ore Muggiano,
ove secondo la mia lista era nato il marinaio Stefano del fu Matteo. Non mi fu difficile,
nel minuscolo centro abitato, trovare i discendenti dell'uomo. Mi spiegarono che l'unico
ricordo che avevano di lui era la lapide nel piccolo cimitero, recante una scritta che la
tradizione voleva avesse deciso lui stesso, poco prima di morire, riportandola su un
foglio di carta che si trovava accanto al suo letto. Fui accompagnato alla tomba, e notai
che sulla pietra levigata erano incise delle lettere. In origine, dentro gl'incavi dei
vari caratteri doveva esservi dell'inchiostro nero. La mancanza di colore rendeva
indistinguibili le parole dallo sfondo della pietra, così che dovetti raccogliere della
terra e spalmarla sulla lapide, affinché le lettere ne emergessero per il colore scuro
del fango rimasto nelle cavità.
Levigai la superficie con il palmo della mano, ed apparve l'epigrafe che Stefano aveva
voluto per sé:
S. X VOI LA SOLA STORIA È LA MORTE
Mi interrogavo sul significato che potevano avere quelle parole? La 'S' iniziale si
riferiva evidentemente al suo nome, ma il resto della frase era davvero sibillino. Per
quale motivo un uomo in fin di vita avrebbe dovuto decidere quale frase incidere sulla
propria lapide funeraria? L'unica ragione che mi veniva in mente era che volesse lasciare
un messaggio a chi fosse stato in grado di decifrarla. Gli strumenti di cui ero in
possesso, però, non mi permettevano di ritrovare un senso nascosto in quelle parole.
Tornai al porto di Lerici, donde la nave salpò in serata, giungendo a Genova a notte
fonda. Decisi di dedicare l'intero anno successivo ad escursioni nei dintorni di Genova,
ove avrei ricercato ciò che i superstiti del viaggio del XII secolo avevano lasciato
prima di morire. In rispetto dei molti che mi accolsero con benevolenza, aiutando i miei
studi e fornendomi materiale prezioso per le ricerche che stavo compiendo, ometterò i
nomi dei molti villaggi visitati durante tutto quel mese di maggio, sacrificando il rigore
della cronaca all'accuratezza con cui riporterò i dati di cui entrai in possesso.
Mi fu riferito dai discendenti di uno dei marinai superstiti che egli, prima di morire,
aveva versato un'ingente somma di denaro a favore della cappella del luogo. A memoria di
questa donazione, era presente nella chiesetta una lapide muraria, su cui compariva
l'iscrizione:
O SORTE, SARÀ LA VOLTA X L'ESIMIO
Nuovamente mi interrogai sul significato di quelle parole. Notai come fattore comune delle
due iscrizioni ritrovate, la presenza di una 'X' che sostituiva il termine italiano
"per". Celiando, mi chiedevo x quale motivo il donatore si definisse
"esimio". Era alquanto bizzarro che il benefattore di una piccola cappella
lasciasse una lapide del genere, la quale non conteneva alcun riferimento evidente né
alla somma versata, né alla causale, né ancora al nome del donatore. Di nuovo, capii che
doveva trattarsi di un messaggio il cui senso, però, mi sfuggiva.
Uno degli uomini ritornati dalla spedizione era sacerdote. Contattai il parroco del
villaggio ove egli probabilmente era vissuto prima di intraprendere il viaggio per mare, e
costui dovette consultare gli archivi prima di riferirmi che il sacerdote era deceduto
nell'ottobre del 1168, proprio nei locali ove mi trovavo. Mi disse che sarebbe stato
possibile accedere ad alcuni documenti risalenti proprio a quegli anni. Mi vietò di
toccare qualsivoglia pergamena contenuta nel ricchissimo armadio a muro, ed io lo osservai
a lungo nella sua ricerca. Estrasse un enorme volume, all'interno del quale era descritto
l'arredamento della chiesa, costruita nel secolo XI. Nell'angolo in alto a destra si
trovavano riportate alcune date, nelle quali erano state apportate delle modifiche o
aggiunte decorazioni, queste ultime dettagliatamente descritte nella zona centrale delle
pagine. Giunse ad una pagina che riportava la data del 1167. Accanto al nome del sacerdote
si trovava una lista di statue da lui fatte erigere, e la dicitura fenetra prophetae
Ionas [43]. Ne presi nota, e raggiunsi la chiesa cui si riferiva il grosso
tomo. Delle statue non c'era più traccia. Scorsi, invece, nella navata di destra la
"finestra di Giona": accanto ad una imbarcazione ridotta in frammenti, il
profeta si gettava nelle fauci di un enorme animale acquatico. Sotto la scena, compariva
un nastro riportante a destra la data del MCLXVII, a sinistra la scritta
O ALIA MORS, ILLA VOX EST SORTÆ
La frase non aveva alcun significato. L'invocazione ad una "altra morte" era
seguita da quattro parole che potevano voler dire "quella voce è sorta". Ma in
questo caso sarebbe dovuto comparire sorta, non sortæ. Non si trattava di
un riferimento biblico, né trovavo alcuna connessione con la storia del profeta Giona.
Eppure mi sembrava di ritrovare un filo comune che legasse tutte le iscrizioni ritrovate
sinora. Percepivo un'unica intenzione espressa in punto di morte da quegli uomini che,
secondo la tradizione, erano giunti a misteriosi "confini del mondo". Ma, a
differenza di quanto avevo letto sul diario di Paolo d'Amalfi, ognuno di loro sembrava
aver lasciato un messaggio in codice per rivelare qualcosa.
Era il caso di un mercante che viveva nell'entroterra genovese. Dopo più di tre secoli, i
suoi discendenti svolgevano ancora l'attività dell'antenato. I registri che compilavano
con meticolosa precisione risalivano all'XI secolo. Nonostante non sapessero nulla
dell'avo navigatore, ritrovarono parecchi riferimenti a lui nelle carte dei primi anni del
XII secolo. L'elenco relativo al mercante riportava una gran quantità di contrattazioni
trattate dalla sua compagnia di commercio. Ognuna era contrassegnata da un numero romano,
seguito dalla descrizione dell'entità del carico. Tali contrattazioni si interrompevano
nel 1164. Dopo alcune righe lasciate in bianco, compariva la data del 1167 accanto al
riferimento ad un bizzarro 66° carico, la cui entità lasciava estremamente perplessi:
LXVI. L'ASSOLATO AMORE È STORIA
Comprenderete, Padre, quanto fossi disorientato davanti a tanti messaggi così
contraddittori ed enigmatici, il cui Senso appariva impalpabilmente sfuggente.
Un'iscrizione di tutt'altro genere ritrovai in un paese della costa ligure di ponente.
Sulla superficie di un pilone che compariva nei pressi della chiesa del paese, era stata
riprodotta, per conto di uno dei marinai superstiti, una scena in cui Nostro Signore, a
bordo di una barca, placava la tempesta che stava infuriando sul lago di Genèzaret [44]. Sulla chiglia della nave si notavano alcuni caratteri che formavano una
iscrizione ancora più bizzarra di quelle in cui mi ero imbattuto in precedenza:
A.E.I.O.U.
A.E.I.O.U.
A.E.I.O.U.
Nella lingua italiana, Padre, le vocali sono soltanto cinque. In tale messaggio, esse
comparivano in sequenza per tre volte. Doveva esserci un motivo per cui l'autore
desiderava che il messaggio fosse letto per ben tre volte. Anche il fratello del marinaio
che aveva commissionato il dipinto si trovava a bordo durante quella spedizione. Era
ancora ricordato dall'attuale parroco del paese come esempio di virtù e pia condotta. Si
raccontava che, al ritorno da un viaggio compiuto per mare, era diventato irriconoscibile.
Non era più in grado di comunicare, e sua unica attività consisteva nella compilazione
di una raccolta di brani delle Sacre Scritture frammiste a farneticanti invocazioni e
frammenti di pensieri senza un senso logico evidente. Il diario che, così, si era venuto
a formare, era stato bruciato dopo la sua morte, poiché avrebbe indubbiamente macchiato
l'immagine che i compaesani avevano dell'integerrimo chierico e il contenuto dello scritto
non avrebbe certo giovato alle anime dei fedeli. Provvidenza volle che alcune pagine non
subissero le fiamme purificatrici: riuscii ad ottenerle dai discendenti del chierico, i
quali le avevano conservate in segreto come frammenti di un messaggio più ampio, cui
forse non si sarebbe mai risaliti. Non si trattava né dell'incipit, né della
conclusione:
...su di me la tua c_llera, le onde mi sommergono. Su di me passa il tuo furore, i tuoi
spaventi mi annientano. Come acqua mi somme_gono tutto il giorno, da ogni parte mi
avvolgono [45]. Precipitano _cque impetuose
di cascata in cascata; su di me sono passate le tue onde [46].
Salvami, o Di_: l'acqua mi arriva alla gola. Affondo in un mare di fango, non ho più un
punto d'appoggio; sono caduto in acqu_ profonde, la corrente mi trascina via! _trappami
dal fango, non lasciarmi affondare, liberami dalle acque profonde! Non lasciarmi
travolgere dalle corren_i, non farmi inghiottire dall'abisso e su di me non si chiuda la
tua fossa! [47] Tu domini l'o_goglio del mare,
plachi il tumulto delle onde [48]. Ti ho chiamato, o
Signore, e tu mi hai dato risposta. Dal profondo degli inf_ri ho invocato aiuto, e tu hai
udito la mia voce. Mi hai gettato in fondo al mare, l'acqua mi ha s_mmerso, le tue onde
sono passate su di me. L'acqua mi è _alita fino alla gola, il mare mi ha ricoperto
completamente, le alghe mi hanno avvolto la testa. Sono sceso fino alle radici dei monti
nella terra che imprigi_na per sempre. Ma tu, Signore Dio Mio, mi f_rai uscire vivo dalla
fossa. Quando ho sentito venir meno la mia vita, ho pregato te, Signore, e dal tuo tempio
s_nto tu mi hai sentito [49] e risposto: "Dov'eri tu,
quando gettavo le fondamenta della terra? Lo sai chi ha deciso le sue dimensioni e ha
tracciato i suoi confini? Su che cosa si fonda la terra? Chi ha racchiuso il mare en_ro i
suoi confini, sin dal suo nascere, quando venne alla luce? Dov'eri quanto lo fasciavo con
la fitta nebbia, lo vestivo di nuvole, gli fissavo i confini, e lo richiudevo entro porte
sbarrate? Gli ho detto, 'Tu arriverai fin qui e non oltre, qui si fermerà l'impeto delle
tue onde'. Sei m_i sceso fino alle sorgenti del mare o hai passeggiato sul fondo degli
abissi? Hai visto i depositi della grandine che io conservo pel momento della sciagura?
Puoi far sentire la tua voce alle nuvole perché ti coprano di abbondanti piogge? Sei
capace di farti ubbidire dai fulmini, di farli partire ai tuoi ordini?" Ti risposi
"Io so che puoi tutto. Nulla ti è impossibile" [ 50]. Proclamavano "Atlas Erit In Orbe Ultima", ma nella tua
onniscienza, già sapevi che Atlas Erit Imperio Orbata Undique. "Fate pure
festa, saltate di gioia, come vitelli su un prato, come stalloni che nitriscono" [51] dicevi loro. "Atlas Est Imperare Orbi Universo" hanno
scritto sulle porte della Città. Ma tu li hai sommer_i nelle acque, i soldati migliori
annegarono nel mare. Le onde li ricoprirono: sono andati a fondo come pietre. Potente e
terribile è la tua mano, Signore, la tua destra stende [52]...
Avrete riconosciuto, Padre, un'inquietante mosaico di versetti, di parole
inspiegabilmente incomplete, che sembrano alludere dapprima ad un naufragio, e in seguito
ad una catastrofe marina abbattutasi su una qualche città, il cui nome già avevo
incontrato nel quadrato del Rexol: Atlas. Particolare che ancor più mi fece
rabbrividire fu la scoperta della ciclicità di tale frammento, dalla cui conclusione ci
si poteva ricollegare all'inizio creando un nuovo e terribile effetto di senso. Il
manoscritto dava spiegazione anche delle strane lettere incise sul pilone votivo dal
fratello del chierico. Si trattava di acronimi indicanti tre differenti frasi: Atlas
Erit In Orbe Ultima, Atlas Erit Imperio Orbata undique, Atlas Est Imperare Orbi universo.
[Atlas sarà l'ultima civiltà a morire, Atlas sarà spogliata dal suo impero da tutte le
parti, ad Atlas spetta di comandare su tutto il mondo. NdT.]
Quest'ultima testimonianza mi convinse del fatto che il viaggio "ai confini del
mondo" era approdato all'isola di Atlas, da identificarsi con ogni
probabilità con l'arcipelago di dieci isole denominato Rex Maris.
Compresi il significato di ogni messaggio in cui, per la via, mi ero imbattuto, quando
giunsi in un piccolo villaggio di pochi pescatori della riviera di levante. In un cippo
fatto erigere come recinzione del suo campo, uno dei marinai superstiti aveva inciso con
uno scalpello una figura da me già conosciuta: il quadrato del Rexol. Fu forte l'emozione
provata nell'istante in cui lo scopersi, e come colto da un'illuminazione improvvisa, mi
si fece chiaro nella mente il Senso del Messaggio che i pochi superstiti di
quell'equipaggio volevano lanciare a chi fosse vissuto dopo di loro.
La lapide di Lerici, l'iscrizione nella cappella, la vetrata di Giona, il registro del
mercante, tutti riportavano, codificato in complessi anagrammi, il quadrato del Rexol.
Ogni sequenza di parole era composta da venticinque simboli, che adeguatamente
rimescolati, avrebbero fornito l'esatta configurazione del quadrato. Potrete voi stesso,
Padre, assicurarvi della verità delle mie affermazioni, constatando che le iscrizioni,
private di accenti e segni di interpunzioni, si riducono a semplici sequenze di lettere
permutabili a piacere...
SXVOILASOLASTORIAELAMORTE
OSORTESARALAVOLTAXLESIMIO
OALIAMORSILLAVOXESTSORTAE
LXVILASSOLATOAMOREESTORIA
per ricreare l'originaria
MORIA OVEST REXOL ISOLA ATLAS
Congetturai - ma ancor oggi non ne possiedo la sicurezza - che la nave dalla quale
ricavarono i cassoni inviati a Venezia, sul fondo di uno dei quali era inciso il quadrato,
fosse proprio quella che aveva condotto l'equipaggio verso il lontano arcipelago
dell'oceano, o che forse ne aveva riportati in patria quasi un terzo. Già durante il
viaggio di ritorno essi avrebbero escogitato un modo per lasciar testimonianza di ciò che
avevano visto, e avrebbero lasciato traccia del loro passaggio incidendo, sulla nave che
li ospitava, copia del quadrato del Rexol. Non riuscivo a spiegarmi in che modo essi, in
particolare il chierico, potessero riferirsi all'isola di Atlas, di cui poterono
avvicinare solo le rovine. Nelle tre sequenze vocaliche sembrava racchiusa l'intera storia
dell'isola, che mostrava sempre più caratteri in comune con le isole oltre le Colonne
d'Ercole descritte dai greci antichi: Atlas sarebbe stata l'ultima civiltà a morire [Atlas
Erit In Orbe Ultima], pensavano i suoi abitanti, e le sarebbe spettato di comandare su
tutti gli altri popoli [Atlas Est Imperare Orbi Universo]. Platone raccontò che
l'isola da lui descritta venne affondata nell'oceano dalla furia degli déi pagani quando
gli abitanti si ritennero superiori agli déi stessi. Era lo stesso messaggio contenuto
nelle parole del chierico: gli abitanti di Atlas non sapevano che sarebbe stata spogliata
dal suo impero da tutte le parti [Atlas Erit Imperio Orbata Undique], annientata
dalla potenza dell'Altissimo. L'isola del Rex Maris della carta di Aramburu,
dunque, era esistita davvero. E per quale motivo il chierico aveva omesso da alcune parole
delle lettere? Non era difficile risalire al testo originario, ma se avevo congetturato
che potesse essere celato un messaggio nelle lettere mancanti, mi accorsi di aver commesso
un errore. Lette nell'ordine, restituivano la enigmatica sequenza O R A O E S T R E O S O
A A T A S, cui difficilmente era stato assegnato un significato.
In seguito a queste riflessioni, provavo un senso di inquietudine ad osservare il quadrato
del Rexol; in tale Messaggio dei superstiti leggevo un grido disperato, quasi un appello a
ritrovare l'isola di Atlas, morta, ovvero distrutta, ad ovest della Grecia, o in senso
più esteso, del Mediterraneo. Mi interrogavo sul motivo per cui essi avessero chiesto
l'intervento della cristianità in tali terre. E ancora, sulla ragione per cui soltanto in
diciannove riuscirono a tornare - e coloro che lo fecero, sopravvissero ben poco. Non ero
in grado di immaginare che cosa fosse in corso nelle lontane terre occidentali: le
misteriose terre indiane e l'antistante arcipelago deserto ove sorgeva l'isola di Atlas.
Eccellentissimo Padre, era Iddio a convocarmi? Era la sua Divina Volontà a chiamarmi a
quelle terre, ove soltanto la voce di pater Johannes e dei suoi fedeli si innalzava
a lode e gloria del Suo Nome?
Vi accorgerete che queste mie riflessioni sorgevano in un periodo in cui la cristianità
tutta era all'oscuro della sfericità della terra, e dunque era per me improponibile
qualsivoglia discussione con uomini di Chiesa.
Fu il Signore ad indicarmi la via da percorrere. Negli anni che seguirono il viaggio
compiuto con Cristobal Colón, spesi nello studio delle testimonianze lasciate quasi tre
secoli prima da marinai che s'erano spinti verso terre lontane e sconosciute, ricevetti
alcune notizie dal Portogallo. Venni a conoscenza del fatto che l'ammiraglio genovese si
era trasferito, nell'autunno del 1477, a Lisbona. Qui, nel 1479, aveva sposato la sorella
del governatore dell'isola di Porto Santo [53],
dove si era trasferito. Nel breve periodo trascorso nella capitale portoghese aveva
sicuramente preso contatti con la Giunta dei Matematici. Rodrigo Vizinho, infatti, mi
scrisse d'aver conversato con un "navigatore italiano, tale Columbus, che diceva di
aver compiuto sì tanti studi da possedere la pressoché certezza della possibile rotta a
ponente per le Indie. Egli - proseguiva la lettera - s'era trasferito a Lisbona per
eseguire studi sul regime dei venti atlantici, ed aveva osservato alcuni pezzi di legno
trasportati dalla corrente, pini di tipo sconosciuto nella regione, alcuni tronchi
lavorati con attrezzi non metallici, e piante né africane né europee." In una
lettera successiva, Rodrigo affermava di aver udito d'un monastero poco distante dalla
costa atlantica, in cui erano tenute in gran conto le speculazioni scientifiche ed era
incoraggiato nei chierici l'interesse per l'astronomia e le sue applicazioni alla
navigazione. Si trattava del monastero in cui tuttora mi trovo. Mi fece il nome di padre
Antonio de Marchena, che contattai prontamente al fin d'ottenere un trasferimento qui a La
Rabida. Congedai la famiglia La Spinola dopo 8 anni di collaborazione assidua, e raggiunsi
il monastero nel febbraio del 1481. Fu qui che vi incontrai per la prima volta, Padre Juan
Pérez, presentato a voi dal mercante Enrico come padre Armanio da Castellón de la Plana.
Voi mi chiedeste di elencarvi i motivi per cui desideravo esser accolto a La Rabida, ed io
vi illustrai in breve i miei studi compiuti a Lisbona con la Giunta dei Matematici.
Soltanto ora, Padre, vi accorgerete di quanti particolari vi nascosi allora, e questa mia
lettera a voi è segno del mio pentimento sincero per avervi tenuto all'oscuro di tanti
miei viaggi e tante mie riflessioni, che mi portarono, gli anni successivi, a raggiungere
luoghi che mai più uomo visiterà.
Credo di non potervi mai ringraziare quanto si dovrebbe per l'accoglienza che mi faceste
trovare nel monastero. Fui immediatamente coinvolto nelle conversazioni che si svolgevano
intorno alla navigazione sulle coste dell'Africa, e ho un ricordo particolarmente vivido
del giorno in cui padre Antonio de Marchena mi mostrò una copia stampata della Geografia
di Tolomeo, pubblicata soltanto quattro anni prima [54].
O Padre, poiché voi avete già personale conoscenza di padre Marchena, vi parlerò
soltanto delle confidenze che mi fece e dei molti momenti in cui i nostri studi furono
condotti parallelamente. Trovai in lui un uomo dall'eccezionale acume e dalle conoscenze
in campo astronomico veramente sorprendenti. Ci accorgemmo che, data la complementarietà
del nostro sapere, se avessimo condiviso le nostre conoscenze avremmo perseguito entrambi
enormi vantaggi. Mi sentii libero, dunque, di raccontargli ogni particolare dei miei studi
e delle mie spedizioni marittime, mantenendo il più stretto silenzio sulle confidenze
ricevute da Colón sull'isola di Frixlanda. Egli rimase affascinato in modo particolare
dalla figura dell'ammiraglio Cristobal, ed è forse in seguito alla descrizione che di lui
gli feci, che divenne un sostenitore fedele e strenuo dei viaggi che Colón voleva
intraprendere [55].
Padre Antonio mi riferì che la morte di re Alfonso V [56]
e la salita al trono di Giovanni II apriva nuove prospettive su possibili finanziamenti da
parte della casa reale per spedizioni verso l'ovest. Seppi in seguito che Cristobal aveva
avanzato a re Giovanni la proposta di un viaggio verso ponente per raggiungere le Indie [57]. Il monarca aveva rifiutato per la richiesta esorbitante di denaro da
parte dell'ammiraglio genovese, e perché era più interessato ai progressi che già erano
in atto sulle coste Africane; dopo sei anni, infatti, Bartolomeo Diaz avrebbe raggiunto il
"capo delle tempeste" [58].
Il destino dell'ammiraglio genovese e il mio si incrociarono nuovamente, contro ogni mia
previsione, quando nel 1485 egli raggiunse questo monastero ed affidò alla nostra cura il
figlio Diego che aveva avuto dalla moglie da poco deceduta [59].
Mi riconobbe, e fu lieto di lasciare il figlio in un ambiente così ricco di astronomi e
studiosi della navigazione. Padre de Marchena riuscì ad avere un colloquio con
l'ammiraglio, al quale promise tutto l'appoggio di cui avrebbe necessitato in ambienti
ecclesiastici per la sua spedizione.
Conoscerete bene ciò che accadde in seguito: l'anno successivo il navigatore genovese
ottenne l'appoggio dei duchi di Medina Sidonia e Medina Coeli [60],
ma non un finanziamento adeguato all'impresa che voleva compiere.
Nell'estate del 1486 mi fu proposto da padre Antonio de Marchena di compiere alcuni
rilevamenti astronomici su un'altura che sorgeva nell'entroterra di Palos. Trascorremmo
molte nottate con gli occhi puntati verso il cielo, e a lume di candela riempimmo molti
fogli di dati e posizioni. Di nulla mi tenne all'oscuro: più volte si impegnò a rendere
chiara la funzione delle rilevazioni che stava compiendo. Ricordo in particolare che una
notte in cui il cielo era coperto egli mi domandò come avrei fatto a navigare verso nord
su una zattera priva di bussola. Gli risposi con un sorriso che la Stella Polare avrebbe
sempre indicato il nord. Egli, allora, mi chiese se anche Noè avrebbe potuto sfruttare
questa gigantesca bussola cosmica. Io mi domandai dapprima il senso di questa domanda, la
cui risposta pareva palese quanto quella della prima che mi aveva posto. Poi gli dissi che
Noé si sarebbe potuto basare sullo stesso principio, e che proprio l'immutabilità delle
leggi di Dio dà ordine al cosmo e non gli permette di sprofondare nel caos. Egli mi disse
che Noé, seguendo la Stella Polare, non si sarebbe affatto diretto verso nord. La stella
che avrebbe dovuto prendere in considerazione sarebbe stata Alpha Draconis. Mi raccontò
di aver udito per la prima volta parlare di terra sferica quando Paolo dal Pozzo aveva
inviato al canonico portoghese Fernando Martins una relazione dettagliata dei suoi studi.
Padre Antonio aveva, così, ripreso in mano un testo dell'astronomo greco Ipparco, in cui
si parlava di un "asse della terra". Egli aveva sempre creduto che potesse
trattarsi di un'immaginaria retta perpendicolare al disco terrestre, ma la teoria del
fiorentino gli faceva pensare ad un asse che attraversasse la sfera terrestre da
estremità ad estremità. Ipparco sosteneva che, per un fenomeno chiamato precessio
equinotialis, l'asse terrestre non era completamente fermo, ma eseguiva dei movimenti
ondulatori che lo portavano, nell'arco di secoli, a variare la sua direzione. Da questo
discendeva che nel passato, al tempo del Diluvio Universale, tale asse non doveva puntare
verso la Stella Polare, ma verso un'altra stella. Gli studi compiuti avevano portato padre
Antonio alla conclusione che, allora, in nord fosse indicato da Alpha Draconis [61].
Non fu, questa, l'unica dotta intuizione di cui il frate astronomo mi rese partecipe.
Alcuni giorni dopo lo interrogai nuovamente sul fenomeno della precessio, che tanto
mi aveva affascinato. Egli mi disse che esisteva un secondo fenomeno legato
all'oscillazione dell'asse della terra. Nel giorno dell'equinozio - spiegò - il sole
sorge ad est esattamente di fronte alla costellazione dei pesci. Concordai con le sue
parole: ne era stato testimone Cristobal Colón quando aveva studiato la rotta da seguire
per mezzo della meridiana, e il simbolo dei pesci compariva sulle carte di Aramburu,
proprio sotto le tre 'S' del Sine Sole Sileo. Secondo padre de Marchena, a causa
della precessio equinotialis la costellazione davanti cui sorgeva il sole non
sarebbe rimasta la stessa per sempre. Come la lancetta di un gigantesco orologio, il sole
sarebbe sorto nella costellazione dei pesci fino ai primi anni del XXI secolo, quando
sarebbe entrato in quella dell'acquario. Gli domandai ogni quanti anni il sole sarebbe
migrato da una costellazione all'altra, ed egli mi rispose che l'intervallo era pari al
tempo che ci divideva dalla fondazione di Roma [62].
Calcolai, dunque, che se il sole avesse raggiunto la costellazione dell'acquario nel
secolo XXI, il passaggio dall'ariete ai pesci si sarebbe dovuto compiere nel III secolo
prima di Cristo, mentre il precedente, dal toro all'ariete, sarebbe avvenuto nel secolo
XXV prima di Cristo. Ne dedussi che il sole venne creato di fronte alla costellazione del
toro [63].E ciò avrei ritenuto una verità assoluta, se non avessi in seguito
visto ciò che avrebbe sconvolto ogni mia ipotesi e teoria sulla data della Creazione.
Ma non vi tedierei affatto con questi principi astronomici, se non acquistassero un
importante ruolo nel corso dei miei successivi studi.
Nell'aprile che precedette quell'estate, Cristobal Colón, che aveva già ricevuto una
benevola accoglienza dal gran tesoriere di Castiglia, Alfonso di Quintanilla, il quale
l'aveva presentato all'arcivescovo di Toledo, Pedro Gonzales de Mendoza, incontrò per la
prima volta i sovrani spagnoli Isabella e Ferdinando. L'attenzione dei monarchi era
rivolta, in quel periodo, alla conquista della regione di Granada, che i mori ancora
occupavano. Approfittando del fatto che, come saprete, nel 1479 gli spagnoli avevano perso
il controllo dell'intera costa africana, passato ai portoghesi, il navigatore genovese
propose a re Ferdinando uno sbocco inatteso: lo sfruttamento delle Indie attraverso la via
dell'Ovest.
Il re istituì una commissione di studiosi presieduta da Hernando de Talavera, uomo la cui
ampiezza di vedute in materia di astronomia e navigazione non era - purtroppo - pari alla
santità.
In seguito, udii più volte padre de Marchena lamentarsi della assoluta mancanza di rigore
degli studi della commissione, e dell'incapacità di valutare senza pregiudizi la teoria
di Colón. Io stesso, dopo alcuni anni, ne lessi le relazioni compilate in seguito agli
studi compiuti, e vi ritrovai decine di citazioni da testi biblici che sembravano negare
la possibilità dell'esistenza di terre a ponente. L'auctoritas che veniva più
spesso nominata era sant'Agostino, ma non mancavano riferimenti ad autori pagani, come
Epicuro, il quale riteneva che esistesse un emisfero opposto al nostro irraggiungibile
perché, per accedervi, sarebbe stato necessario attraversare una zona torrida, in cui i
navigli si sarebbero in un istante ridotti in cenere. E poiché da Adamo derivò il genere
umano tutto intero e né Adamo né i suoi figli attraversarono mai l'oceano, come mai
potrebbero esser popolati gli antipodi?
Aggiungo, padre, che nel giugno di sei anni dopo Hernando inviò alla regina Isabella una
lunga epistola, in cui sosteneva che sorpassare i limiti fissati da Dio al mondo
significava peccare e perdere la propria anima per l'eternità, e inoltre avrebbe dato
inizio ad un'epoca di terribili calamità. Il monaco giungeva addirittura a proporre di
affidare Colón alla Santa Inquisizione.
Non vi stupirà, dunque, l'unanime reazione negativa alla proposta dell'ammiraglio. In
accordo con gli altri monaci di La Rabida, inviammo una lunga missiva alla Commissione, in
cui criticavamo alcune conclusioni basate su errate interpretazioni delle Sacre Scritture.
Non ricevemmo alcuna risposta.
Vi sarete accorto del vivo interesse che suscitarono qui a La Rabida le proposte di
Cristobal ai monarchi di tutta Europa: io e padre de Marchena non eravamo i soli a sperare
che egli riuscisse ad ottenere una flotta per esplorare la via dell'ovest; molti altri
confratelli, soprattutto chierici, si tenevano costantemente aggiornati sui movimenti
dell'ammiraglio, e s'io posso riferirvi che Colón si rivolse ancora al re d'Inghilterra
Enrico VII [64] e al francese Carlo VIII [65], lo devo a loro. Conoscerete bene, padre, il fallimento di
quest'entrambe proposte.
Ma dirò di un altro navigatore di cui udimmo progetti simili a quelli dell'ammiraglio
genovese: il suo nome, Fernão d'Ulmo [66], ci era stato
segnalato da Martin Behaim in una lettera dal tono entusiasta. Si trattava di un fiammingo
la cui impresa era stata accuratamente studiata da una commissione presieduta dallo stesso
Martin, il quale ci informava della avvenuta partenza di Fernao per l'isola delle Sette
Città.
Come avrete udito, egli non fece mai ritorno. Fu, questo, un fatto che ancor più accrebbe
lo scetticismo delle commissioni di studio: comprenderete, in questo contesto, un altro
responso negativo da parte del gruppo di studiosi nominato dalla regina Isabella, diretto
dal suo monaco confessore Hernando de Talavera.
Trascorsi gli anni che precedettero il 1493 studiando su numerosi testi di astronomia, che
più volte mi furono segnalati da padre Antonio de Marchena. Le nostre conversazioni
riguardavano in particolare l'applicazione all'arte della navigazione di principi
cosmologici e astronomici. Egli mi illustrò, ad esempio, un paradosso che sembrava
crearsi applicando la geometria al globo terrestre. Se, infatti, il percorso più breve
per passare da un punto all'altro su un piano era quello che univa in linea retta i due
punti, sulla sfera questo principio non era più valido. Per raggiungere una regione agli
antipodi, sulla terra sarebbe stato necessario percorrere un tragitto curvo, la cui
lunghezza era pari alla semicirconferenza terrestre. Per quale motivo la retta non era
più la direzione ottimale da seguire? [67] Aggiunse, ancora, che
da questo problema discendeva un'intrinseca difficoltà a rappresentare su una carta
nautica le coste degli stati. Un'esatta descrizione di tutte le coste e degli oceani si
sarebbe potuta eseguire soltanto disponendo d'una carta nautica sferica come il globo da
rappresentare. E vi dirò che quest'idea, per quanto bizzarra, fu realizzata da Martin
Behaim a Norimberga nel 1492, il quale dipinse su un grande globo di legno le coste del
mondo conosciuto. Mai vidi questa carta-globo, ma ne fui informato dallo stesso studioso
tedesco.
Se, dunque, l'interesse per l'astronomia mi s'era creato dopo l'incontro con Antonio de
Marchena, dirò che anch'egli rimase affascinato dall'arte cartografica nello studio della
quale trascorrevo innumerevoli ore. E voglio lodare in particolare la gran quantità di
trattati su tale arte che potei avvicinare nella biblioteca del monastero di cui voi siete
l'eccellentissimo Priore. Se in queste mie pagine dovessi elencare tutti i testi che
sfogliai con le mie mani e di cui ammirai le splendide riproduzioni, questa lettera
diverrebbe null'altro che un elenco accurato e forse completo dei volumi della biblioteca;
mi limiterò, così, a nominarne uno soltanto, che acquistò un ruolo importante per le
mie riflessioni.
Copia del trattato dell'astronomo greco Protineo Remota cosmologya, riproduceva un
gran numero di mappe del Mediterraneo. Tra le altre, ne scorsi una che mi parve d'aver
già visto altrove. Non aveva le fattezze della mappa del capitano Aramburu, né di alcuna
carta mostratami dall'ammiraglio Cristobal. Ricordai, poi, di non aver effettivamente mai
visto tale immagine, ma d'averne udito soltanto una descrizione da parte di un marinaio a
Genova, il quale mi aveva riferito del ritrovamento di alcune anfore greche in terra
africana, presso la foce di un fiume. Su un'anfora, egli aveva notato la riproduzione di
una mappa, che gli apparve insolita per la presenza di una grossa terra ad ovest della
Ispagna. Osservando la pagina della Remota cosmologya che avevo davanti agli occhi,
l'avrei potuta descrivere con le stesse parole usate dal marinaio per l'anfora: essa
riportava i confini di alcune terre tra le quali si riconoscevano le coste spagnole e
nordafricane. A sinistra, poco più a sud di un gruppo di isole, su una vasta terra
compariva l'immagine di un uomo incoronato che emergeva dalle acque reggendo un tridente.
Accanto a costui, la scritta talassas teos permetteva di identificarlo con Poseidone, il
dio del mare. A sinistra del dio pagano, compariva l'immagine di un leone che cavalcava un
sole, proiettando un'ombra allungata.
Sentivo che l'immagine riprodotta sull'anfora doveva essere quella che si trovava in quel
momento davanti ai miei occhi. Il significato dell'immagine del sole e del leone, però,
risultava ancora oscura alla mia mente.
Dio si servì di padre Antonio de Marchena per portare la luce nei miei studi: quando gli
chiesi quale significato poteva avere, in un trattato astronomico, l'immagine di un leone
a cavallo del sole, egli si allontanò per raggiungere la sua cella, e ritornò dopo
alcuni minuti con un volume tra le mani. Si trattava della Astronomia di Ipparco,
illustrata da un copista particolarmente abile. Lo aprì, e dopo averlo sfogliato per
qualche istante, indicò un'immagine che raffigurava una coppia di pesci che si mordevano
reciprocamente la coda. All'interno del cerchio da loro formato, compariva l'immagine del
sole. Padre de Marchena mi spiegò che il leone e i pesci erano configurazioni zodiacali.
L'associazione di questi con il sole, indicava il lungo periodo storico durante il quale,
per il fenomeno della precessio, l'astro diurno sorgeva dinanzi alla costellazione
indicata. I pesci intorno al sole rappresentavano il periodo nel quale siamo tuttora
vivendo: dal III secolo prima di Cristo al XXI dopo Cristo [68].
Ne dedussi, dunque, che il leone che cavalcava il sole doveva riferirsi al periodo che
sarebbe intercorso tra i secoli CLIV e CLXXVIII dopo la nascita di Cristo [69].
Mi interrogai più volte sul senso che potesse avere un tale riferimento temporale su una
carta geografica risalente ai greci antichi, in contraddizione con il biblico annuncio che
la fine dei tempi era ormai prossima. Nuovamente invocai l'aiuto di padre de Marchena, il
quale mi disse che il ciclo della precessio era incominciato quando il Cosmo fu
creato, e da allora sarebbe proseguito sino all'Apocalisse finale. I calcoli eseguiti
dagli studiosi sulla data della creazione del mondo, però, non erano corretti. Secondo
padre Antonio, l'Onnipotente avrebbe dato forma al Cosmo ben prima del 3760 a.C. Si
trattava di un'affermazione pericolosa.
Gli domandai, allora, in quale era fosse stato creato. Egli mi disse di non conoscere la
risposta a questa domanda, ma parlava di centinaia di ere prima dell'attuale.
Questo significava che la carta di Protineo poteva riferirsi anche ad una era precedente
l'attuale. Dai miei calcoli risultò che si potesse trattare del periodo intercorso tra i
secoli CXV e XCII prima di Cristo [70], dall'anno 11440 al
9200. Notai una impressionante coincidenza tra questo periodo e quello in cui la civiltà
descritta da Platone sprofondò negli abissi: novemila anni prima di Cristo. Dunque il
testo del Filosofo poteva riferirsi ad un fatto realmente accaduto.
Comprenderete, padre, il mio stato d'animo, incapace di mediare tra la conoscenza
scientifica che stavo apprendendo e l'intaccabile fede che avevo nelle Sacre Scritture. Fu
ancora l'appoggio di padre de Marchena a sollevarmi da un periodo di profonda crisi
interiore. Egli mi disse che non si sarebbe dovuto confondere un testo di buona scienza
con i libri della Bibbia. La scienza spiegava i meccanismi, i processi, i "come"
degli eventi che accadono. La Bibbia raggiungeva la profondità delle motivazioni, dei
"perché" di ciò che avviene. Aggiunse che la scienza dei medicinali poteva
alleviare i dolori fisici, risalendo ai processi per cui si crea la sofferenza. La Parola
di Dio, invece, sorreggeva il malato dandogli una motivazione, un Senso più alto che si
nascondeva dietro quel dolore. E fece il nome di Nostro Signore Gesù Cristo, che aveva
patito l'immolazione in Croce per dare un significato più alto ad ogni sofferenza cui noi
saremmo stati sottoposti.
Non si dovevano, dunque, interrogare le Sacre Scritture riguardo argomenti di dominio
scientifico. Padre de Marchena arrivò a dire che forse Adamo non era esistito, e che la
descrizione del peccato originale non fosse altro che un'allegoria, un riferimento
"poetico" (usò questo termine) alla ribellione che avvenne nel momento in cui
l'umanità tentò di vivere senza dar lode all'Altissimo, ergendosi a giudice di sé
stessa.
Udite queste parole, il mio animo si sollevò in un inno di gloria al Suo Santissimo Nome:
percepivo un barlume di Verità nelle parole di padre Antonio, e nonostante fossero teorie
che difficilmente sarebbero state capite dal volgo, anzi, si sarebbero prestate ad
insidiosi fraintendimenti, accolsi come mie queste opinioni, e ne feci tesoro negli anni
che seguirono.
Non so se queste pagine sopravviveranno alla furia di coloro che rifuggono gli argomenti
della logica per affidarsi unicamente ad una fede cieca e senza domande. Spero, in ogni
caso, che l'Altissimo protegga queste mie parole, affinché rifulgano a maggiore sua
gloria, illustrando agli uomini tempi e modi in cui l'Onnipotente plasmò il Cosmo tutto.
Ma dirò ora dell'imponente mole di informazioni che ormai possedevo, dimostrazioni tutte
dell'esistenza dell'arcipelago che, nei secoli precedenti il 9000 avanti Cristo, aveva
visto il fiorire di una civiltà sorta sull'isola di Atlas.
La sua presenza risultava da carte nautiche antichissime, delle quali soltanto due uomini
erano a conoscenza: l'ammiraglio Cristobal ed io.
E fu la tenacia del navigatore genovese a convincere i reali spagnoli della possibilità
di buscar el Levante por el Poniente [71]: come avrete
udito, con le Capitolazioni di Santa Fe [72] presero la decisione
di finanziare una spedizione verso l'ovest, guidata da Colón. Padre Antonio da Marchena
si era avvicinato sempre più all'ammiraglio, e gli aveva dato un importante aiuto per
vincere le ultime esitazioni da parte dei reali. La fine della lunga guerra contro gli
Infedeli portò al navigatore genovese la notizia che attendeva da anni. Furono armate tre
caravelle, e il comandante italiano diede alla propria il nome della Madre di Nostro
Signore, quasi ad innalzare un inno di lode verso la donna che generò il Figlio
dell'Altissimo ed invocarne la protezione e la benedizione.
La flotta lasciò il porto di Palos il 3 agosto 1492, e dopo due mesi di navigazione piena
di incognite e peripezie, avvistò le coste indiane del Cipango, le terre visitate dal
veneziano Marco Polo [73]. E la lode dell'intera
cristianità vada all'ammiraglio Cristobal, per cui Dio ha fatto più di quanto abbia
fatto per i suoi profeti, aprendo davanti alle prue delle sue navi le acque dell'oceano, e
permettendogli di liberare l'umanità da un antico errore. Il 12 ottobre ha consegnato
all'Ispagna un mondo nuovo, intatto, i cui popoli vedranno la luce di Cristo e udranno la
sua santa Parola.
Il 15 marzo 1493, al suo ritorno, egli ottenne un'accoglienza trionfale, essendosi fatto
accompagnare in patria da alcuni uomini dalla pelle rossa che aveva trovato sull'isola da
lui scoperta e battezzata San Salvador; nell'aver notizia di tali eventi mi accorsi delle
prospettive che il viaggio dell'ammiraglio aveva aperto.
Dapprima constatai la perfetta corrispondenza tra la descrizione che ebbi degli uomini
rossi acconciati con penne variopinte e il testo della lettera di pater Johannes.
Anche l'ambiente descritto da Colón era del tutto simile a quello su cui l'ignoto
sacerdote era naufragato.
D'altra parte, molto raramente ero in grado di prendere sonno la notte senza udire, nel
silenzio della cella, le urla dei dispersi dal viaggio verso l'ovest, da cui erano
ritornati salvi soltanto diciannove marinai.
E le membra mutilate, i volti irreparabilmente contratti dal dolore, le grida lancinanti
di quegli esseri scampati per miracolo da una tragedia, comparivano alla mia mente, e
domandavano un perché... Più volte mi svegliai ansimando, per la consapevolezza d'esser
forse l'unico ad udire ancora quei sussulti, quei richiami. Mi domandavo dove si
trovassero quei quarantun uomini che, raggiunte probabilmente le terre di Cristobal, vi
avevano ritrovato un destino infausto. A che cosa erano stati sottoposti? Le mie notti
erano popolate di incubi terrificanti, ed immaginavo le efferatezze più crude, perpetrate
su quegli europei che - per fini che mi risultavano assolutamente ignoti - avevano
raggiunto territori sconosciuti all'intera cristianità. Ritornarono alla mia mente le
parole che Cristobal mi aveva confidato sull'isola di Frixlanda: la spedizione era stata
"organizzata da una potente confraternita religiosa".
Non so spiegarvi, eccellentissimo padre, il modo in cui collegai nella mia mente il
concetto di "confraternita religiosa" e la "croce templare di
Cîteaux" sotto la quale avevo ritrovato il manoscritto di pater Johannes. Vi
dirò soltanto che riflettei su questa congettura comparsa alla mia mente in modo
subitaneo, come un'illuminazione da tempo attesa ma invano cercata. Perché i
"Cavalieri del Tempio"? Scomparsi due secoli fa, all'inizio del XII secolo erano
al culmine del loro potere, detenendo provincie, magioni e capitanerie in tutta Europa e
Oriente.
Non fu difficile per me ritrovare decine di testi che riguardavano la confraternita di San
Bernardo. Fui colpito in modo particolare da alcuni insediamenti templari: accanto a
Cesarea, San Giovanni d'Acri e Antiochia, comparivano i nomi La Rochelle, Cadice e
Campochiesa. Se i primi due vi risulteranno indubbiamente noti, vi segnalo il fatto che
l'ultimo si riferisce ad un villaggio che visitai durante le mie indagini intorno al
quadrato del Rexol. Comprenderete la mia sorpresa di ritrovare in tanti luoghi, da me
uditi nel corso degli studi sulla pergamena di pater Johannes, un fattore comune,
un elemento unificatore, costituito dai Cavalieri del Tempio.
Giuntami notizia di una seconda spedizione verso le terre indiane d'oltreoceano, pensai
che avrei potuto unirmi alla flotta di Colón, composta questa volta da 17 caravelle,
placando, così, i miei incubi e facendo tacere definitivamente quelle voci che da ormai
troppo tempo turbavano i miei sogni. Le navi sarebbero partite dal porto di Cadice;
ricorderete che nell'aprile del 1493 vi domandai licenza di raggiungere la città
spagnola, permesso che mi concedeste dandomi la vostra benedizione. Vi tenni all'oscuro
della mia volontà di intraprendere il viaggio verso l'ovest, e di ciò non posso che
domandarvi umilmente perdono. Pensaste che volessi trascorrere alcuni mesi nella città
andalusa al fin di approfondire i miei studi sul regime dei venti atlantici.
Raggiunta Cadice il 23 aprile, fui accolto dai frati Cappuccini, i quali mi fecero
alloggiare in una confortevole costruzione che sorgeva accanto alla chiesa di Santa Cueva.
Notai il basso livello culturale dei religiosi della città, con i quali non potei affatto
proseguire gli interessanti dibattiti intrapresi qui a La Rabida. Mi fu d'aiuto
nell'intessere contatti con la compagnia portuale di Cadice un uomo di nome Francisco de
Noronha: si trattava di un architetto responsabile della costruzione di alcuni pozzi, da
eseguirsi nei pressi del chiostro dei Cappuccini. In passato la sua abilità e le sue
conoscenze idrauliche erano state sfruttate per l'edificazione di piccole costruzioni
murarie nei pressi del porto della città, realizzate per ampliare la già vasta serie di
edifici adibiti a magazzini.
Più volte fui invitato nella sua casa, ed egli si mostrò molto interessato ai miei
studi. Pensai di domandargli se conoscesse qualcosa sul ruolo svolto dai Cavalieri del
Tempio nella città. Egli mi disse che, nel passato, i Templari possedevano una flotta
composta da decine e decine di cocche anseatiche. Si trattava di un tipo di nave che già
avevo udito dal frate benedettino conosciuto a Carcassonne. Francisco mi confidò che le
cocche anseatiche erano navi tecnicamente avanzatissime, che soltanto i Cavalieri del
Tempio avrebbero potuto possedere, grazie alla gran quantità di denaro di cui
usufruivano. Nessuna flotta reale, né europea né saracena, possedeva navi di tale
fattura, dotate addirittura di un timone a poppa. Non saprete, padre, che l'uso di tale
timone risale soltanto agli ultimi anni del secolo XV [74].
Era davvero sorprendente che i Cavalieri potessero disporre di una flotta così potente e
tecnicamente avanzata. Francisco de Noronha aggiunse che, quando era bambino, aveva udito
dai più vecchi che "i Cavalieri di Gerusalemme avevano costruito tante chiese con
l'oro del mare". Più volte si era interrogato su queste dicerie, e ne aveva concluso
che i Cavalieri di Gerusalemme erano da identificarsi con i Cavalieri del Tempio. Non era
riuscito a spiegarsi il significato di "oro del mare", ma quando aveva avuto
notizia dello sbarco di Colón nella terra di San Salvador, aveva ipotizzato che i
Templari avessero già raggiunto nel passato, con le loro potentissime flotte, le coste
indiane, e da laggiù avessero portato con sé quantità ingenti di oro, speso per la
costruzioni delle oltre trenta cattedrali europee.
Mai ipotesi giunse più suggestiva e inquietante ai miei orecchi.
Riferii a Francisco di aver udito d'una cocca anseatica che era stata possedimento papale
fino al XIV secolo. Gli dissi anche che al suo interno era stata rinvenuta una mappa,
ormai distrutta, che riportava confini di terre ad ovest dell'Europa; la nave era stata
costruita a La Rochelle. Egli mi disse d'esser stato in passato nella città francese, e
di aver più volte avuto l'impressione che il suo porto fosse molto più avanzato di
qualsiasi altro egli avesse mai visto. Non sapeva che i Cavalieri vi avessero costruito
una roccaforte [75], e si disse perplesso sul
fatto che vi si fossero insediati; quando non si faceva ricorso ai servizi delle
Repubbliche marinare italiane, l'organizzazione templare prevedeva che i carichi da
inviare fossero convogliati nell'Apulia, e imbarcati su navi che prendevano il mare dal
porto di Brindisi. Ottenni alcuni documenti che provavano la presenza templare nella
città, e che oltre ad attribuire il controllo dell'area portuale all'Ordine dei Cavalieri
del Tempio, testimoniava l'importanza che tale centro aveva acquistato negli anni.
Francisco si disse molto stupito dal fatto: per i collegamenti con la Ispagna e il
Portogallo erano utilizzate, ancora oggi, vie di terra. Tra i vari documenti che mostrai a
Francisco, in particolare fummo colpiti da una mappa della Francia, sulla quale risultava
evidente come la città francese si trovasse alla confluenza di oltre dieci strade. Ci
chiedemmo se esistesse qualche elemento che avesse potuto provare la congettura per cui i
Templari avrebbero scoperto, e forse percorso per anni, la via dell'ovest per raggiungere
le Indie.
L'unico elemento di cui disponevo era la pergamena di pater Johannes, nascosta
sotto una croce templare, e mi accorsi che la teoria di Francisco poteva non essere così
inverosimile. Provai ad immaginare uno scenario plausibile. Nel 1130 una nave lascia il
porto di Genova per raggiungere Cadice. Un terrificante fortunale fa deviare la rotta
verso una direzione sconosciuta. L'equipaggio sbarca sulle coste indiane, e un sacerdote
che si trovava a bordo, pater Johannes, incomincia a predicare il Vangelo ai popoli
incontrati. Alcuni uomini si convertono al Cristianesimo, e vengono inviati dal religioso
in Europa, il quale affida loro una lettera manoscritta per il pontefice. In essa lo
informa della presenza di terre sconosciute alla cristianità, con la speranza che il
papato possa benedire la sua missione ed inviare altri uomini che lo aiutino nella sua
opera di fede. Giunta in Europa, la lettera viene occultata nella cripta di Cîteaux, con
ogni probabilità dai Cavalieri del Tempio. Il motivo per cui ciò avviene dev'essere
attribuito al timore che circolasse la diabolica idea di una terra al di là del mare: i
cristiani avrebbero, così, cominciato a chiedersi perché la Bibbia non ne parli, e poi a
dubitare del potere spirituale del papato. Saprete bene che in quegli anni la chiesa si
trovava in un difficile momento, impegnata com'era a sradicare il germe dell'eresia
albigese. Una lettera del genere avrebbe avuto la funzione di incrementare ancor più i
dubbi del popolo cristiano nell'infallibilità delle Sacre Scritture. I Templari non si
lasciano sfuggire la possibilità di sfruttare ciò che le terre dell'ovest possono
offrire. Forse sulle coste indiane si trovavano immensi giacimenti d'oro e argento. In
tutta segretezza, creando un servizio regolare da La Rochelle raggiungono e fanno
pervenire in Europa quantità immense di metalli preziosi, utilizzate per finanziare la
costruzione di decine di cattedrali. Da uno dei viaggi verso occidente, presumibilmente
negli anni immediatamente precedenti il 1169, data di compilazione del diario di Paolo
d'Amalfi, di un equipaggio di sessanta membri fa ritorno in Europa soltanto un terzo. La
nave su cui si trovavano raggiunge un arcipelago di dieci isole, ultime terre emerse di un
continente che era fiorito nel 9000 avanti Cristo, durante l'era del Leone, ed era stato
distrutto dalla furia divina. Non riuscivo ad immaginare che cosa avvenne nell'arcipelago
dell'isola di Atlas. Diciannove uomini ritornano in patria: mutilati nelle membra, privati
dell'uso della parola, sfigurati in volto da ciò che hanno dovuto vedere e in preda ad un
inspiegabile terrore, lasciano - prima di morire - testimonianza dell'esistenza passata di
una terra, l'isola atlas, su documenti, diari, lapidi e sulla chiglia della nave
che li ha riportati in patria: è il quadrato del Rexol. Nessuno in Europa è in grado di
comprendere il significato dei messaggi lasciati dai superstiti.
Si trattava, padre, di una ricostruzione molto sommaria, che non spiegava l'esistenza
della meridiana di Frixlanda, né della carta di Aramburu, né delle anfore greche in
terra fenicia. Ero certo che l'anello mancante fosse da ricercare nell'arcipelago del Rex
Maris, ove l'isola atlas doveva aver lasciato qualcosa di sé. E fu così che,
dopo mesi di contatti con la compagnia portuale di Cadice, fui accolto a bordo della Mariagalante,
l'ammiraglia di Cristobal. Era il 23 settembre. Il navigatore mi riconobbe, e con un
sorriso soddisfatto mi si avvicinò e mi strinse le mani con forza. Non parlò del viaggio
che avevamo fatto anni prima. Mi disse soltanto che gli faceva piacere avermi a bordo, e
che avrebbe avuto da confidarmi alcuni pensieri che gli erano nati durante la spedizione
del 1492.
Molti degli uomini dell'equipaggio erano i compagni della prima spedizione e gli altri,
per la maggior parte, erano volontari entusiasti e assetati di ricchezze. C'erano poi
alcuni hidalgos [76] e molti ecclesiastici. Tra
questi ultimi, venni presentato a padre Linares, colui che più aveva contrastato Colón
prima del 1492. Il suo sguardo era penetrante e severo, e non s'addiceva affatto ad un
uomo che aveva il ruolo di convertire alla fede di Cristo i popoli indiani. Furono
imbarcati anche cavalli e strumenti di ogni genere, e l'equipaggio comprendeva numerosi
artigiani, che avrebbero edificato nuove città nelle terre raggiunte.
La flotta di diciassette caravelle tutte insignite del vessillo regio, con a bordo
milleduecento uomini, fece vela all'alba del 25 settembre 1493, in mezzo ad un festoso
risonare di corni e di trombe, commisto all'eco delle bombarde che si propagava per le
curve del lido. I teneri adii si mescevano agli auguri più cari per i naviganti che
andavano alla ricerca dell'oro a traverso un mare che aveva perduto, per opera
dell'esploratore genovese, la fama secolare di mare tenebroso popolato di mostri. A bordo
della nave su cui mi trovavo, al seguito del genovese "ammiraglio del mare Oceano e
viceré delle Indie" c'erano uomini d'arme, fanti e cavalieri, gentiluomini familiari
del re, e antichi ambasciatori della corte di Ispagna. Non meno di cinque domestici erano
addetti alla persona di Colombo. Tra gli altri, conobbi il cartografo Juan de la Cosa, cui
dobbiamo la carta nella quale siano segnati i contorni e i nomi delle prime terre scoperte
da Cristobal.
Ci dirigemmo dapprima verso le isole Canarie, approdando alla Gran Canaria il 2 ottobre.
Ripartimmo il giorno stesso, verso la mezzanotte, diretti verso la Gomera, ove giungemmo
tre giorni dopo. Nei due giorni di sosta, completammo le provvigioni, procurando semi,
piante ed animali destinati a riprodursi nelle nuove terre. Al momento di riprendere il
viaggio, l'ammiraglio consegnò a ciascun pilota un piego sigilato contenente il tracciato
della rotta per l'isola Española. Proibì di dissuggellare l'involto, eccetto che se le
navi, a causa di una tempesta, avessero dovuto perdere di vista la capitana.
Il 13 ottobre perdemmo di vista l'isola del Ferro, la più occidentale delle Canarie, e in
quel punto accentuammo la rotta verso il sud.
A bordo della nave potei osservare decine e decine di portolani accuratissimi, nella
lettura dei quali i giorni a bordo della Mariagalante passarono celermente. Più
volte praticai rilevazioni astronomiche sul pontile, utilizzando il quadrante che si
trovava nella cabina di pilotaggio. Il rollio e il beccheggio della nave imprimevano forti
oscillazioni al filo a piombo, tanto da rendere azzardata ogni lettura. Tentai, ad ogni
modo, di seguire sommariamente il tragitto percorso.
Il 23 ottobre incominciammo a vedere sul mare grosse chiazze d'erba galleggianti. Tra una
manciata d'erba venne pescato un granchio vivo, e non poco me ne rallegrai, poiché sapevo
per esperienza che quei piccoli crostacei non s'incontravano mai a più che 80 leghe dalla
terra. Il viaggio fu rallentato, però, dallo scatenarsi di una tempesta terribile, che
colpì la nave il 26 del mese. Riuscimmo a placarla esponendo il corpo di sant'Ermo sulla
gabbia della capitana in mezzo a sette candele accese [77].
Quando il cielo si rasserenò, vedemmo passare sulla nave un pellicano, ed alcuni giorni
successivi una balena, animale che rallegrò gli animi di tutti, perché nessuno ignorava
che quel cetaceo si discostava poco dal lido. Il 3 novembre, da poco terminata la
celebrazione delle funzioni sacre, furono raccolti a bordo un ramoscello di rosa canina,
carico di bacche, e alcuni pezzetti di legno lavorato. A sera, avvistammo alcuni lumini in
lontananza. O eccellentissimo padre, forse non riusciranno le mie parole a descrivervi
l'animo con cui accolsi la notizia d'esser giunto nelle terre del Cathai, nell'estrema
propaggine orientale delle Indie di Marco Polo, nelle regioni la cui esistenza aveva
turbato i miei pensieri, le mie riflessioni, gli studi di anni interi. Del Signore è
quella terra, con le sue ricchezze, con i suoi abitanti. Lui l'ha fissata sopra i mari,
l'ha resa stabile sopra gli abissi. Chi è degno di salire al monte del Signore? Chi
entrerà nel suo santuario? Chi ha il cuore puro e mani innocenti; chi non serve la
menzogna e non giura per ingannare. Alzate, porte, i vostri frontoni, alzatevi, porte
antiche: entra il re, grande e glorioso! Chi è questo re, grande e glorioso? E' il
Signore, valoroso e forte, è il Signore Dio dell'universo: è lui il re grande e glorioso
[78].
L'ammiraglio diede all'isola il nome di Dominica, per il giorno in cui era stata
avvistata. Non riuscendo a trovarvi porto, ripartimmo, lasciando una nave che la
costeggiasse. Dirò, padre, che nei giorni successivi incontrammo altre isole; una prese
il nome di Mariagalante, un'altra Guadalupe - poiché Cristobal aveva
promesso ai monaci di Santa Maria di Guadalupe di dare il nome del loro convento ad
un'isola che avrebbe scoperta. La nave trovò infine porto su una baia di quest'isola, ed
approdammo il 4 novembre. Per la prima volta il mio piede si posò su una terra indiana, e
mi chinai a terra, stringendo nelle mie mani la fine sabbia bianca che si trovava sulla
spiaggia.
Insieme ad alcuni esploratori, visitammo un villaggio deserto, composto di poche misere
capanne. Frugammo dappertutto, e con gran meraviglia di tutti fu ritrovato un pezzo di
nave europea che non apparteneva certamente alla nave perduta dall'ammiraglio nel primo
viaggio [79].
Colui che meno fu impressionato da tale rinvenimento fui indubbiamente io. Compresi che
quel frammento di chiglia non poteva appartenere che alla nave di pater Johannes.
Decisi di informare l'ammiraglio di tutte le conoscenze acquisite in tanti anni di studio,
compresa la pergamena del sacerdote. E non ebbi difficoltà ad ottenere un udienza con
lui: il comandante Diego Marquez, infatti, si internò nell'isola e si smarrì tra le
dense foreste, riuscendo ad uscirne soltanto il 10 novembre. La sosta forzata all'isola di
Guadalupe, dunque, mi permise di trarre in disparte Cristobal e di mostrargli la
pergamena. Lo vidi molto interessato sia al manoscritto che gli avevo posto tra le mani,
sia al quadrato del Rexol che gli avevo proposto. Dopo averli studiati per alcuni minuti,
mi disse che doveva esservi qualche collegamento tra i due documenti. Mi riconsegnò la
lettera, e rivolse verso di me il quadrato, puntando il suo dito sulla lettera
"M". Disse a bassa voce "mille", poi spostò il dito sulla
"I" della prima parola, pronunciando la parola "uno". La sua mano
indicò quindi la "V" della parola ovest, e disse "cinque".
Si fermò, e mi restituì il quadrato. Mi disse di proseguire da solo il calcolo. Non
riuscivo a comprendere, padre, ciò che l'ammiraglio mi stava proponendo di fare. Provai
ad estrarre dal quadrato tutte le lettere che avessero un corrispondente valore numerico,
e ne trassi la sequenza MIVXLILL. La somma delle singole cifre dava il numero 1167.
Comunicai il totale a Cristobal, il quale mi disse che - ora - conoscevamo anche la data
in cui il viaggio nelle terre indiane era stato fatto.
Aggiunse ancora che tutte le carte di Aramburu recavano in un angolo la croce patente
templare, la stessa che compariva nella cripta di Cîtreaux. Durante i suoi studi,
l'ammiraglio era risalito ad un Jean d'Aramburu, templare francese d'origine basca con
ogni probabilità avo del comandante Aramburu, al quale San Bernardo avrebbe affidato una
missione da mantenere assolutamente segreta ed alcuni documenti ritrovato dai Cavalieri
del Tempio a Costantinopoli.
Nulla si diceva della natura di tale missione, né dei documenti segreti. Si era a
conoscenza, però, del fatto che Jean d'Aramburu aveva raggiunto il porto di La Rochelle
in brevissimo tempo, e da qui s'era diretto verso una "città lontana". Dapprima
Cristobal aveva ipotizzato che costui si fosse diretto verso le isole del nord: se in tali
documenti si parlava della meridiana di Frixlanda, egli si sarebbe potuto dirigere verso
tali terre.
Ma rivelandogli le conclusioni cui ero giunto, egli comprese il ruolo che avrebbe potuto
svolgere la città di La Rochelle: da qui, Jean d'Aramburu si sarebbe potuto imbarcare per
le terre del Cathai, e con il passare dei secoli tali carte ed appunti nautici sarebbero
giunti nelle mani del suo discendente Aramburu.
Cristobal mi apparve molto turbato, ed io attribuii il suo stato d'animo al fatto che egli
non poteva più considerarsi il primo europeo a porre piede sulle terre oltreoceaniche. Ma
compresi che non dava alcun peso a queste riflessioni: sospirando, mi investì d'un
importante incarico. Ricordo che le sue parole mi indussero alla commozione e ancora oggi,
nel ricordarle, sono colto da profonda emozione. Per il tono solenne che allora utilizzò
e per il fatto che furono le ultime parole che da lui udii. In seguito non avrei mai più
rivisto Cristobal Colón. Con sguardo fermo e serio, mi disse che il ruolo di noi europei
in questa terra era quello di civilizzatori e portatori della luce dell'Evangelo. Questo,
sopra tutto, era ciò che avrebbe dovuto guidare ed ispirare ogni pensiero ed azione, ogni
esplorazione e contatto con gli indigeni. Il quadrato del Rexol era la eco lontana di un
passato che era stato tragico per alcuni uomini, i quali avevano raggiunto queste terre, e
vi avevano trovato la morte. In qualità di servo di Dio, avrei dovuto spendere i giorni
che mi restavano da vivere nella ricerca della Verità che si nascondeva dietro tale
scomparsa. Il ritrovamento del frammento di nave era da considerarsi come una
manifestazione della Volontà Divina: l'Onnipotente mi chiedeva, tramite le parole di
Cristobal, di ritrovare le orme lasciate due secoli prima da sessanta europei giunti da
Genova al seguito di una spedizione templare.
Vi dirò, padre, che il timore di ciò davanti cui avrei potuto trovarmi fu mitigato in
gran parte dal pensiero che stavo agendo Ad Maiorem Dei Gloriam, al fin di portare la luce
di Cristo e della Verità su un mistero che legava le terre europee a quelle del Cathai,
sulle quali ci trovavamo.
E chinai il mio capo, giurando all'ammiraglio la mia volontà di eseguire la missione di
cui egli m'aveva investito, e chiedendogli di pregare per la buona riuscita dell'azione
che stavo per intraprendere. Mi abbracciò, e mi diede un colpo con il palmo della mano
sull'avambraccio. Mi sentii ripieno di quella forza che la fede nell'Altissimo crea nel
milite di Cristo, pronto a render testimonianza della Parola di Dio in quelle terre.
Quando Cristobal si allontanò, risuonarono in me le sue parole e i gesti con cui aveva
decifrato il quadrato del Rexol: egli era stato in grado d'andare oltre il Senso
Letterale, raggiungendo un livello di lettura più profondo e celato agli occhi dei più.
Era riuscito a leggere in quelle venticinque lettere la data in cui la nave era ritornata
dalle coste indiane. Ed essa coincideva con i dati di cui ero in possesso: la fenetra
prophetae Ionas e il registro del mercante ligure riportavano la stessa data. La mia
ammirazione, se ancora non aveva raggiunto un punto altissimo verso l'ammiraglio italiano,
fu ancor più elevata da questa dimostrazione del suo acume e della sua intelligenza. E
ancor più fui ferito nell'orgoglio quando scoprii che sarebbe bastato sottrarre alle
parole moria ovest rexol isola atlas le lettere mancanti dal manoscritto del
chierico per estrarre dal quadrato tutte la sequenza di numeri la cui somma avrebbe
rivelato l'anno del ritorno in patria dei naviganti.
Ritornai alle navi, e fui accolto a bordo di una caravella che costeggiò l'isola di
Guadalupe raggiungendo il 10 del mese un'isoletta che, per essere assai montuosa, venne
chiamata Monserrate. Costeggiammo la terra per raggiungere un promontorio che
sorgeva poco più a sud. L'intero equipaggio sbarcò, lasciando che le altre caravelle
proseguissero nell'esplorazione del vasto arcipelago. Da allora non rividi più la Mariagalante
né Cristobal. Ma dirò, padre, che la missione che stavo conducendo diresse tutti i miei
pensieri a ciò che vidi sull'isola. Furono tirati alcuni colpi di colubrina, ma alcun
rumore giunse di rimando. Soltanto verso sera uscì dalla fitta vegetazione un gruppo di
uomini dalla pelle rossa, adorni di piumaggi i cui variopinti colori si distinguevano
appena, illuminati com'erano dalle torce che tenevano tra le mani. Non sembravano avere un
atteggiamento ostile nei nostri confronti, al ché mi avvicinai ad uno di essi allargando
le braccia in segno di pace. Costui dovette comprendere le mie intenzioni, poiché ordinò
che i pochi uomini intorno a lui riponessero nelle faretre le frecce che da poco avevano
estratto. Si espresse in un linguaggio che non compresi, e si avvicinò a me. Si mise il
pungo sul petto, alzando la mano sinistra in segno di saluto. Con un breve movimento della
testa, diede ad intendere che desiderava lo seguissi. Mi voltai verso gli uomini
dell'equipaggio, i quali, stupiti di questo inaspettato incontro, avevano impugnato le
armi, pronti a difendersi da un eventuale attacco. Dissi loro che avrei seguito
l'indigeno. Tra gli uomini della nave non c'erano altri ecclesiastici: si trattava
soltanto di artigiani, coltivatori e uomini d'arme. In caso contrario, avrei richiesto la
compagnia di un uomo di chiesa per la missione d'ambasceria che stavo per svolgere.
Dovetti, invece, inoltrarmi nella foresta da solo, accompagnato soltanto dagli uomini
dalla pelle rossa. Camminammo per alcuni minuti, fino a giungere ad un gruppo di capanne.
Intorno ad un fuoco, alcuni uomini seduti si volsero ad osservarmi, e nei loro occhi notai
la comprensibile sorpresa di trovarsi di fronte ad un uomo bianco, vestito con un saio
così diverso dai loro abiti di piume.
Fui introdotto in una capanna che era illuminata dal fuoco di alcune torce disposte sulle
pareti. All'interno, giacente su un letto pensile e reticolato, si trovava un uomo
all'apparenza molto anziano. Con voce flebile, si rivolse a me, pronunciando le parole
"Ave". Intuii che si trattasse della lingua latina, ed egli volesse, così,
darmi il benvenuto nella lingua dei paesi dai quali provenivo. Mi chiesi come potesse egli
conoscere il latino: compresi, in seguito, che non era affatto in grado di parlarlo
correntemente; egli possedeva un vocabolario molto ristretto di parole, con le quali
cercava di farsi da me capire. Tentai di comunicargli il mio nome, dicendogli: "Ego
sum pater Armanio". Tossendo più volte prima di poter pronunciare altre parole,
sollevò due dita e mi disse: "Pater Johannes hic... est... fuit". All'udire il
nome del religioso le cui parole avevo letto e meditato per anni, dapprima sussultai, poi
riflettei su ciò che l'anziano mi stava dicendo. Padre Giovanni era stato qui, in questo
luogo. Respirando affannosamente, egli si accorse, probabilmente dalla mia espressione,
che il nome del religioso non mi era del tutto nuovo. Accennò ad un sorriso, e ripeté:
"Pater Johannes... hic fuit!". Impaziente d'udire da lui altre informazioni sul
sacerdote, agitai le braccia, mimando le parole che scandivo per farmi comprendere
dall'indigeno: "Ego legi Patris Johannis epistulam." Mi parve ch'egli non
comprendesse le mie parole. Soltanto, con un gesto della mano, chiamò alcuni uomini, ai
quali si rivolse con un linguaggio a me incomprensibile. Essi si allontanarono dalla
capanna, per ritornarvi dopo alcuni minuti. L'anziano uomo mi osservò sorridendo per
alcuni minuti, ed io provavo un imbarazzo immaginabile, eccellentissimo padre: solo, in
mezzo ad un popolo che non parlava la mia lingua, lontano centinaia di leghe dalle terre
europee e dalla mia cella di La Rabida... Al ritorno degli uomini inviati dall'anziano
indigeno, fui condotto in una capanna all'interno della quale trovai un pagliericcio
dall'aspetto confortevole, e un contenitore di bambù ricolmo di frutti esotici
variopinti. Pensai di ritornare alla nave, per avvertire gli uomini della presenza del
villaggio nel quale ero stato accolto con così grande entusiasmo. Poi riflettei
sull'atteggiamento che avevo notato nell'equipaggio: non pochi intendevano raggiungere
l'isola per ottenerne ricchezze e terreni. I più non mostravano alcun interesse nella
possibile cristianizzazione delle terre raggiunte. La sete dell'oro guidava ogni loro
azione, e sono certo che non avrebbero esitato ad uccidere pur di depredare un villaggio
dagli ori e dai monili che vi avrebbero trovato. Decisi, dunque, di tener segreta
l'ubicazione di questo piccolo gruppo di capanne, deciso com'ero ad approfondire i legami
che c'erano tra il villaggio e il misterioso pater Johannes.
I pochi indigeni che mi avevano accompagnato a quella che, compresi, si trattava della mia
stanza da letto, si allontanarono. Mi stesi e mi addormentai presto. Fui risvegliato dal
risuonare di alcuni tamburi. Uscii dalla capanna, e vidi lo splendore di quell'Arcadia
descritta da pater Johannes nella sua lettera a papa Onorio II. E mi accorsi che,
come il sacerdote aveva scritto, gli indigeni "erano miti e gentili, e io immaginai
che così avremmo potuto essere se non avessimo perduto per sempre il Paradiso Terrestre.
Quella terra era ricca e generosa, sia di frutti che di cacciagione, oro e pietre preziose
e i suoi abitanti ci accolsero come fratelli e ci sfamarono". Raggiunsi la capanna
dell'anziano uomo dalla pelle rossa, che la notte precedente mi aveva accolto con parole
di benvenuto. Egli mi riconobbe, e mi rivolse nuovamente l'unico saluto che conosceva in
lingua latina. Respirando a fatica, pronunciò nuovamente il nome del religioso, seguito
da una parola di cui non compresi il significato: "Pater Johannes ciba [80]."
Volgendo lo sguardo verso un uomo che si trovava accanto al letto, gli sussurrò la parola
"Cibao!". Con la mano mi indicò di seguire l'uomo al quale s'era rivolto, ed io
uscii dalla capanna, dirigendomi verso la fitta foresta che circondava il villaggio.
Perdetti il senso dell'orientamento, e non sarei stato in grado di ritornare alla nave.
Anche il sole, che mi avrebbe aiutato ad orientarmi, era scomparso dalla mia vista,
oscurato com'era dalle fronde scure che avevo d'intorno. Costeggiammo un corso d'acqua
percorrendo un sentiero che si faceva sempre più ripido e scosceso. Lo spettacolo che si
parò dinanzi ai miei occhi difficilmente potrà esser descritto dalle mie parole: si
trattava della sorgente del fiume che avevamo seguito per una buona mezz'ora. Sgorgava
dall'interstizio di due rocce bianchissime, e formava una cascata di alcuni metri,
tuffandosi in una conca dai riflessi d'avorio. Ogni roccia che veniva bagnata dall'acqua
aveva un colore bianco molto lucente con riflessi dorati. Il sole, riflettendosi sui
sassi, illuminava quello spettacolo della natura, facendomi innalzare a Dio un canto di
lode per le meraviglie che mi stava mostrando.
Gli uomini si tuffarono nella grande pozza d'acqua, gridando il nome che avevo già udito
dall'anziano indigeno: "Cibao!". La colorazione delle pietre doveva derivare da
un qualche minerale che si trovava disciolto nell'acqua. Ma non aveva la tonalità del
calcare: non avevo mai visto dei riflessi tali.
Mi chinai a toccare l'acqua, ed immediatamente sentii la mano rifulgere di una energia mai
provata prima. Sentii le mie fibre rigenerarsi, sensazione che doveva derivare dalle
proprietà benefiche di quell'acqua sorgiva. Gli uomini uscirono dalla conca, e si
diressero verso il sentiero che ridiscendeva lungo il fiume, verso il villaggio donde
eravamo partiti. Tornato tra le capanne, fui accompagnato dall'anziano indigeno, il quale
mi accolse sorridendo. Riuscì a pronunciare, dopo un lungo sospiro, le parole "Johannes
ap... appellabat ciba o-orichalcum". Vi dirò, padre, che l'oricalchum è
un minerale dai riflessi dorati descritto da Platone nel Critia; tale pietra si trovava
nella città da lui descritta, affondata nel 9000 a.C. negli abissi dell'oceano Atlantico.
Fu dunque grande la sorpresa nell'udire quel nome associato alla sorgente e a pater
Johannes. Richiamai alla mente il documento del sacerdote, e mi ricordai delle parole
che aveva utilizzato nel descrivere una sorgente d'acqua che aveva trovato nella foresta,
la "fonte della vita". Egli aveva scritto di aver lasciato che l'acqua gli
scorresse sugli abiti, e d'improvviso sentì svanire la stanchezza per il lungo viaggio.
Gli parve che le membra si facessero più leggere e di essere tornato vigoroso come negli
anni della gioventù. Io non avevo sperimentato un'immersione completa, ma il semplice
tocco dell'acqua aveva in qualche modo rigenerato le mie mani, donando loro un vigore
nuovo. Ciò che l'indigeno voleva darmi ad intendere era che il sacerdote chiamava la
sorgente (o le rocce bianche) orichalcum. Doveva esserci un motivo per cui egli
avesse usato questo termine, che conoscevo per aver letto i dialoghi platonici. Vi avrei
riflettuto a lungo. Possedevo invece, una sicurezza: quella di trovarmi sulla terra - o su
una delle terre - che pater Johannes aveva visitato. Mi congedai dall'anziano, ed
attraversai il villaggio, che si rivelò più vasto di quanto non avessi immaginato la
notte prima. Giungemmo ad una costruzione molto più imponente delle altre, realizzata con
assi di legno e canne di bambù. Entrando, vi ritrovai oltre due dozzine di uomini dalla
pelle rossa che si voltarono verso di me, facendo un veloce e scomposto segno della croce.
Puntando il mio sguardo alla parete di fondo della capanna, compresi di trovarmi in una
chiesa cattolica: sopra un altare in legno si trovava un piatto ricolmo di frutti esotici.
Accanto al piatto, un rozzo calice conteneva un liquido nerastro. Non erano pane e vino,
ma frutti della terra e del loro lavoro quotidiano. Dietro il misero altare era stata
issata una croce molto ampia, e poco è più a destra, qualcuno aveva realizzato una
statua nei cui tratti avevo riconosciuto la Vergine Maria. Si alzò un vociare diffuso, e
vidi che tutti mi indicavano pronunciando il nome di pater Johannes. Compresi che
mi avevano scambiato per lui: tale costruzione non poteva essere che opera sua o dei suoi
seguaci. Ancora oggi mi chiedo se agii secondo la Divina Volontà di Dio, quando raggiunsi
l'altare ed aprii le braccia, intonando un canto di lode. Pronunciai le parole gloria
in excelsis deo, e fu con grandissima sorpresa che udii tutti gli uomini dalla pelle
rossa unirsi al mio canto. Capii che davvero grandi sono le opere del Signore, e che egli
non abbandona i suoi figli. Da due secoli ormai questi uomini avevano proseguito l'opera
cui aveva dato inizio pater Johannes nel lontano 1140. Forse non tutto ciò che il
sacerdote aveva insegnato loro era restato nelle loro usanze: ma forse la bellezza della
religione cristiana è questa disponibilità ad adattarsi ai popoli, alle culture, ai
costumi dei luoghi che ha raggiunto. E se, io con voi padre, avremmo gridato allo scandalo
al vedere uomini acconciati in quel modo in una cattedrale europea, nello scenario da Eden
nel quale mi ritrovavo i loro costumi erano un'ulteriore lode all'Altissimo, per la
variopinta colorazione e per l'umile semplicità. All'udire le voci di quegli uomini,
nelle quali ritrovai la sincera volontà di glorificare il Signore della Vita, il mio
cuore si sollevò dalle tensioni del viaggio e provai lo stesso desiderio di pater
Johannes di non ritornare in Europa, ma di restare in questa Arcadia e di svolgere la
mia missione in queste terre lontane. Poi la richiesta di Cristobal risuonò nella mia
mente, richiamandomi alla promessa che gli avevo fatto. Nulla avrebbe dovuto distogliermi
dalla strenua ricerca della Verità intorno alla spedizione del XII secolo. Quando il
canto di lode terminò, mi si avvicinarono molti indigeni, e tutti cercarono di toccare il
mio saio. Fui trasportato fuori dalla cappella, e raggiunsi un pozzo che sorgeva a poche
centinaia di metri dal centro abitato. Mi accorsi che non affondava le sue radici in
alcuna falda sotterranea: uno degli indigeni che mi aveva condotto sul posto, si
introdusse nella cavità e, assicurando alla sua vita una corda, si calò all'interno del
pozzo, scomparendo presto dalla mia vista. Ne riemerse dopo alcuni minuti, e tra le mani
teneva una cassetta di legno rinforzata con listelle di metallo. Ritornammo nel villaggio,
e l'anziano indigeno ne estrasse una pergamena arrotolata che mi consegnò tra le mani
senza proferir parola. Ne lessi il contenuto, mirabile e sorprendente per le rivelazioni
che conteneva, scritto in lingua latina oltre due secoli prima.
"I
o, padre Giovanni, servo di Dio e della Chiesa, dopo una vita spesa per la continua testimonianza dell'Evangelo, mentre le forze mi stanno abbandonando, lascio nelle viscere della terra il resoconto di ciò che avvenne per anni in questo angolo di Eden, ancora incontaminato dalle tenebre del peccato. Il mio animo è addolorato e afflitto, e le membra affaticate dall'opera che ho compiuto per la maggior gloria dell'Onnipotente. Ma il mio cuore è ricolmo della consapevolezza d'aver agito rettamente, e tanto basta per farmi lasciare questa vita con la serenità nel cuore. Giunsi in queste terre in seguito ad un fortunale che colse la nave poco oltre le colonne d'Ercole. La nostra nave fu scagliata sulle spiagge di quest'isola, ove fummo accolti da uomini che la cristianità non aveva mai incontrato. Non sapevo e ancora non so quanto questa terra si estenda, né di quale territorio si tratti. Trovai, però, un terreno fertile per portare agli indigeni dalla pelle rossa la Parola che Nostro Signore ci ha affidato. Insegnai i rudimenti del latino a questi uomini, e compresi che la cristianità europea avrebbe dovuto conoscere le meraviglie di quest'Arcadia sulla quale ero, per volontà di Dio, sbarcato. A bordo di una nave che il carpentiere di bordo aveva costruito con l'aiuto degli indigeni, si imbarcarono alcuni uomini dalla pelle rossa. Con sé recavano una lettera indirizzata al nostro pontefice Onorio. Non so quale sorte ebbe l'imbarcazione, né mai saprò come il papa accolse le mie parole. Per anni scrutai invano l'orizzonte, nell'attesa di veder comparire navi europee che avessero risposto al mio richiamo. Con il passare del tempo le mie speranze si affievolirono, e compresi che i miei messaggeri non erano riusciti a raggiungere le coste mediterranee.
C
ome una rivelazione subitanea e improvvisa, le parole di pater Johannes illuminarono la missione della quale ero stato investito da Cristobal Colón. Rilessi più volte il manoscritto lasciato dal religioso, che sciolse ogni mio dubbio e interrogativo. Inquietante per la sua incompletezza, terminava con una profezia terribile quanto ferma. Secoli erano ormai passati dal giorno in cui il sacerdote aveva scritto tale pergamena, inspiegabilmente mai portata a termine. Tutto faceva pensare che egli fosse stato colto dalla morte prima di poter concludere il suo messaggio. Il nucleo di ciò che rivelavano le sue parole, però, era molto chiaro: nella mitologia del popolo indigeno viveva il ricordo di una catastrofe che aveva fatto inabissare una civiltà sorta su una grande terra dell'Atlantico. Atlas era il nome che egli le dava. Io sapevo che ciò era avvenuto oltre novemila anni prima della nascita di Cristo. Secondo Platone, gli uomini che abitavano quella terra avevano stretto contatti con i greci: il fatto spiegherebbe le anfore ritrovate in terra fenicia e le carte elleniche rinvenute dai Cavalieri del Tempio a Costantinopoli. Per segnalare la presenza della terra, essi posero sull'isola di Frixlanda una meridiana che indicasse, nel giorno dell'equinozio, l'esatto tragitto da seguire per raggiungerla. Poiché la civiltà fiorì nell'Era del Leone, sulle anfore e sulla Remota cosmologya del greco Protineo compariva un leone sopra un sole, il quale proiettava un'ombra allungata [84].
A
tlantide. Il solo nome, eccellentissimo padre Juan Pérez, mi faceva rabbrividire. Comprenderete, dunque, il fatto che mai, sino ad ora, l'abbia menzionato nella mia cronaca. Descriverò ciò che vidi senza alcun rigore cronologico, proprio perché la mia mente, stordita dallo splendore e dalla sorpresa di trovarsi di fronte ad una città così meravigliosa e ritenuta dai più una favola, possiede soltanto più caotiche immagini sovrapposte in ordine casuale, e i ricordi si mescolano rendendo impossibile qualsiasi tentativo da parte mia di stilare un resoconto razionale e puntuale sulle mirabilia da me vedute. L'anfratto dal quale ero giunto si inoltrava in un canale largo tre pletri, profondo cento piedi e lungo oltre cinquanta stadi [86]. In lontananza si scorgeva un'altura, intorno alla quale era stato scavato un triplice fossato ripieno d'acqua. Il canale, nel passato, doveva essere percorso dalle navi che vi approdavano: tale passaggio confinava con un recinto e disponeva di un'insenatura dove i vascelli più grandi avrebbero potuto comodamente manovrare. Tre recinti terrestri e marini si alternavano, circondando l'altura sulla quale sorgeva un tempio magnifico; tutti erano larghi due stadi, tranne l'ultimo che circondava l'isola centrale, il quale era largo uno stadio solo. Potemmo raggiungere, grazie ad una serie di ponti, la zona centrale della città. Qui si elevava un palazzo del diametro di cinque stadi. Il circuito di quest'isola, i recinti, il porto largo tre arpenti, erano rivestiti di un muro di pietra. Tutto intorno si trovavano torri e porte in testa ai ponti e all'ingresso delle volte sotto cui passava il mare. In particolare ricordo la bellezza cromatica dell'ambiente sul quale mi trovavo: tutt'intorno all'isola e da ogni lato dei recinti, erano state tagliate pietre bianche, nere e rosse, disposte a formare disegni mirabili. In tutta la loro lunghezza, a guisa d'intonaco, i tre recinti erano ricoperti di metalli splendenti: di rame il più esterno, di stagno il secondo, di orichalcum dai riflessi di fuoco il più interno. Nel centro dell'isola, vicino al palazzo, si elevava un tempio circondato da una muraglia d'oro; era largo tre arpenti, lungo uno stadio e di un'altezza proporzionale. Nel suo aspetto non v'era alcunché di barbarico. Tutto il suo esterno era rivestito d'argento, salvo l'estremità, che erano d'oro, argento e orichalcum. I muri, le colonne, i pavimenti erano ricoperti d'avorio. E dentro si vedevano statue d'oro, tra le quali primeggiava un dio in cui riconobbi le sembianze di Poseidone. Ritto sul suo carro, conduceva sei corsieri alati, ed era così grande che la sua testa toccava la volta del tempio, e a lui tutto intorno, cento fanciulle sedute su delfini. Un gran numero di altre statue sorgevano nei pressi del dio. All'esterno poi, tutt'intorno al tempio, si elevavano le statue d'oro di quelle che pensai fossero le regine e i re che avevano regnato sulla terra di Atlantide.
Comprendemmo d'esser giunti nel luogo ove in passato erano stati perpetrati sacrifici
umani e riti spaventosi dagli antropofagi che avevano invaso il territorio degli
atlantidei. Ammassati in un angolo si trovavano decine di teschi. Accanto ad essi, una
serie di lance e strumenti di tortura colpirono la mia immaginazione, e compresi la
sofferenza patita dagli uomini che erano caduti vittima di queste popolazioni selvagge.
Sul fondo era stato eretto un recinto, forse per i prigionieri. Avvicinatomi, scorsi sui
muri invocazioni in latino, vergate secoli fa dagli europei che qui avevano trovato la
morte. Sopra un altare in pietra, alcuni disegni che qui riproduco non permettevano di
dubitare dell'efferatezze compiute in questo luogo.
Pregai anch'io, come pater Johannes, per le anime dei molti innocenti qui
sacrificati, ringraziando l'Altissimo per aver sterminato la civiltà selvaggia che s'era
insediata in questa città dallo splendore magnifico. E ripresi il mio cammino,
ritrovandomi davanti ad una colonna eretta nell'esatto centro della città. Intagliata in
una roccia d'orichalcum e incisa con caratteri da me sconosciuti, fu avvicinata con
interesse da Tikan-Ris, il quale trascorse alcuni minuti per afferrarne il contenuto. Poi
si voltò verso di me, tentando di trasmettermi il significato delle parole sulla colonna;
e ne compresi il senso generale, per l'altissima abilità gestuale dell'indigeno. Ma Iddio
volle che, a poca distanza, si trovasse una simile colonna, franata per terra, sulla quale
lo stesso testo era tradotto in greco antico. Compresi di trovarmi di fronte alla prova
storica dell'avvenuto contatto in tempi antichissimi tra la civiltà atlantidea e quella
greca. Non fu difficile per me leggerne il contenuto; unico ostacolo era il fatto che la
roccia non fosse integra.
La colonna raccontava la storia della civiltà di Atlantide, dal giorno della sua nascita
sino alla catastrofe che la colpì. Nella notte dei tempi gli dei si divisero il mondo, ed
ognuno di essi ebbe per sua parte una contrada, grande o piccola, nella quale stabilì i
suoi templi e domandò sacrifici in suo onore. L'Atlantide era toccata a Poseidone. E
compresi il motivo per cui sulle carte era indicata come talassas teos o Rex Maris.
Egli mise in una parte di quest'isola dei piccoli che aveva avuto da una mortale. Ed era
una pianura situata vicino al mare e, verso il mezzo dell'isola, la più fertile di tutte
le pianure. A cinquanta stadi più lontano, e sempre verso il mezzo dell'isola, vi era una
montagna poco elevata. Colà dimorava, con sua moglie Leucippe, Alexico, uno degli uomini
che la terra aveva altra volta generati. Essi non avevano altri figli che una ragazza
chiamata Clito, che era nubile quando morirono tutti e due. Poseidone ne fu preso e si
unì con lei. Poi, per chiudere e isolare da ogni parte la collina ove essa abitava,
scavò attorno un triplice fossato ripieno d'acqua, racchiudendo due bastioni nei suoi
solchi ineguali, al centro dell'isola e ad uguale distanza dalla terra: il che rese quel
luogo inaccessibile, poiché non si conoscevano allora né i vascelli né l'arte di
navigare. Nella sua qualità di dio egli abbellì a suo agio l'isola che stava formando.
Vi fece scorrere tre sorgenti, una calda, un'altra fredda, una terza rigeneratrice, e
cavò dal seno della terra alimenti svariati ed abbondanti. Cinque volte Clito lo rese
padre di due gemelli che egli allevò. Poi divise l'isola in dieci parti, ognuna delle
quali dominata da un'altura. E compresi il motivo per cui, attualmente, fossero rimaste
dieci isole della civiltà sommersa: si trattava delle alture che dominavano le dieci
regioni del continente atlantideo. Al maggiore nato della prima coppia di gemello donò la
dimora di sua madre, con la opulenta e vasta campagna che la circondava, e lo creò re su
tutti i suoi fratelli; questi fece pure, al di sotto di lui, anche sovrani ciascuno di un
grande paese e di numerose popolazioni. Dette ad ognuno di essi il proprio nome. Il
maggiore nato, che fu il primo re di quest'impero, fu chiamato Atlante, e da lui appunto
presero il nome l'isola intera e l'oceano Atlantico che la circonda. Il suo fratello
gemello ebbe in dominio la estremità dell'isola che è più vicina alle colonne d'Ercole:
egli si chiamava Gadiro, e da lui il paese prese il nome di Gadiria. I figli del secondo
parto furono chiamati Amfere e Evemone; quelli del terzo, Mnesea e Autoctono; della quarta
coppia di gemelli il maggior nato fu chiamato Elasippo e il secondo Mestore; gli ultimi
erano Azaes e Diaprepes. I figli di Poseidone ed i loro discendenti regnarono nel paese
per una lunga serie di generazioni, e la posterità di Atlante si perpetuò sempre
venerata.
Con il passare dei secoli gli abitanti costruirono templi, palazzi, porti, bacini per i
vascelli; e finirono anche di abbellire l'isola nell'ordine seguente. Loro prima cura fu
di gettare ponti sui fossati che circondavano l'antica metropoli e stabilire per tal modo
comunicazioni tra la dimora reale e il resto del paese. Essi avevano già da tempo elevato
questo palazzo nello stesso luogo dove avevano abitato il dio e i loro antenati. I re che
lo ricevevano di volta in volta in eredità continuavano incessantemente ad abbellirlo,
sforzandosi di superare ognuno il suo predecessore; onde si giunse a tanto che non si
poteva, senza rimanere stupiti di ammirazione, contemplare tanta grandezza e tanta
bellezza.
Potrei ancora continuare, descrivendo l'ordinamento politico che qui vigeva e i riti
religiosi dedicati a Poseidone, ma Platone già ha descritto correttamente tutti questi
aspetti della vita atlantidea. Dirò, invece, di un principio che guidava le loro vite, il
quale poteva definirsi a tutti gli effetti "cristiano": lungi dal lasciarsi
inebriare dai piaceri e dall'abdicare il governo di se stessi nelle mani della fortuna,
divenendo così gioco delle passioni e dell'errore, essi sapevano infatti comprendere che
tutti gli altri beni si accrescevano soltanto per il loro accordo con la virtù, e che al
contrario, quando li si perseguivano con troppo zelo e ardore, quelli si perdevano, e la
virtù con essi. Fu una sorpresa ritrovare un tale concetto espresso da uomini che non
avevano mai conosciuto il Messaggio di Nostro Signore. Ma con questo compresi come lo
Spirito Santo semina la sapienza anche su popoli lontani dalla cristianità, e per questo
la mia lode si alzò solenne. Pregai con un salmo del re Davide, prima di riprendere la
lettura del testo greco, dalla quale compresi come gli abitanti di Atlantide avevano avuto
sentore del fatto che presto una catastrofe li avrebbe sterminati. Scrivevano infatti:
"La volta dei cieli è divenuta instabile, il corso del sole si fa irregolare. Il
leone non ci osserva più dalla stessa porzione di cielo. Presto le acque del cielo e
della terra si uniranno contro Atlantide. Eusenes comanda: sia costruito un secondo cielo
che protegga la città dalla distruzione totale. E i suoi guerrieri agiscono. Eusenes
comanda: tutti gli abitanti prendano il largo verso le terre dell'est e dell'ovest,
portando con sé due pergamene, affinché ciò che è stato raggiunto in secoli di storia,
non abbia a disperdersi. E i suoi abitanti agiscono. Eusenes comanda: venga arrestata la
ruota del tempo, e questa città dorma un sonno perenne fino alla caduta finale del cielo.
E i suoi sacerdoti agiscono. Atlantide è pronta a patire l'ira del firmamento."
La volta di cristallo era stata, dunque, stata fatta costruire per preservare questa
città dalla distruzione totale. Lasciate le colonne alle nostre spalle, raggiungemmo una
parete del palazzo reale, ove sorgeva un'enorme ruota suddivisa in cinquantadue settori
circolari. Studiandone più da vicino la struttura, mi accorsi che nel passato doveva
esser stata in movimento: si trattava della "ruota del tempo" descritta da
Eusenes. Ogni settore corrispondeva ad una settimana dell'anno solare, e ognuna di esse
era dominata da un punto cardinale e da un simbolo: a nord il coltello, ad est la canna, a
sud il coniglio, ad ovest la casa. Non comprendo, oggi come allora, quale significato o
funzione avesse tale congegno circolare. Dirò soltanto, padre, che vidi Tikan-Ris
prostrarsi a terra di fronte a quella ruota, e ripetere alcune strane parole dai suoni
dolcissimi.
Riprodurrò su questo mio foglio il disegno della ruota, nonostante non sia mai riuscito a
coglierne l'essenza:
Alzammo gli occhi alla volta di cristallo, e ci accorgemmo che ormai il sole stava
tramontando. Avremmo dovuto abbandonare Atlantide prima che la notte calasse. Ci dirigemmo
verso il canale dal quale eravamo giunti, ma confesso d'essermi intrattenuto a lungo ad
osservare il paesaggio sottomarino che si scorgeva attraverso le pareti cristalline della
città. Se l'intera città principale si era salvata dalla catastrofe, l'esterno era stato
modificato dall'acqua che per millenni aveva sommerso le bellezze di quella terra. Sopra
un tappeto d'erbe marine, si stendevano giganteschi solchi di pietre, forse gli ultimi
resti di antiche strade e selciati. In lontananza, si notava un'inspiegabile luce, che si
irradiava dalla cima di una montagnola sottomarina. Più a destra, un bosco di alberi
morti, senza foglie, senza linfa, alberi mineralizzati dal sale delle acque e dominati qua
e là da pini giganteschi. Somigliava ad una miniera di carbone ancora in piedi, stretta
con le radici a un terreno sprofondato, e le cui ramificazioni paragonabili a fini intagli
di carta nera spiccassero nettamente sul cumulo delle acque. I sentieri erano ingombri di
alghe e di fuchi, e vi brulicava un mondo di crostacei. Il mio sguardo si spostava sulle
moltissime rocce, sui tronchi coricati e le liane di mare che ondeggiavano tra un albero e
l'altro. Quale spettacolo! Come descrivere quegli alberi e quelle rocce, in basso cupe e
selvagge, in alto colorate a mille toni rossi sotto il chiarore che la riverberante
potenza delle acque moltiplicava? Ai lati della foresta, tenebrose gallerie dove lo
sguardo si perdeva. Vaste radure si aprivano, che parevano disboscate dalla mano
dell'uomo. Vi intravidi rovine pittoresche dove era segnalata l'opera dell'uomo e non più
soltanto quella del Creatore. Nei cumuli di pietre restavano vagamente identificabili
antichi templi e palazzi, rivestiti da traboccanti zoofiti in fiore: in mancanza d'edera,
alghe e fuchi avevano steso là un gran tappeto. Poco prima di raggiungere l'imboccatura
del passaggio che ci avrebbe ricondotti in superficie, mi accorsi che l'altura dalla quale
vedevo giungere scintille di luce altro non era che un vulcano che vomitava lava a
torrenti, a cascate di fuoco dentro l'oceano. Torcia enorme, il vulcano illuminava la
pianura fino all'estremo limite dell'orizzonte. Le colate di lava, incandescenti per
natura propria, arrivavano fino al rosso bianco; lottavano contro l'elemento liquido
evaporando al suo contatto, creando un effetto ottico veramente spettacolare.
Poi lanciai un ultimo sguardo all'acqua che sommergeva la sgretolata e demolita città
d'altri tempi, con i suoi tetti sfondati, i templi abbattuti e le colonne stese al suolo.
Respirai per l'ultima volta nella mia vita l'aria d'un territorio inghiottito che
esistette per gli antichi fuori dall'Europa, dall'Asia e dalla Libia, oltre le Colonne
d'Ercole. Tikan-Ris lanciò un ultimo sguardo alla pianura, e con la mano mi invitò a
seguirlo.
La piroga che attendeva all'esterno ci accolse a bordo e dopo una settimana di rotta verso
nord-ovest ci ritrovammo sulle coste donde eravamo partiti. Prima di approdare, vedemmo
una caravella cristiana ormeggiata al largo del promontorio.
Giunto al villaggio, mi congedai dall'anziano indigeno donandogli la croce che tenevo al
collo. Egli, allora, fece chiamare Tikan-Ris, il quale mi affidò un manufatto che aveva
raccolto nella città d'Atlantide. Si trattava della testa di un uomo ricoperta da un
copricapo diviso in venticinque settori. Venticinque, pensai. Come le lettere del
messaggio inciso dai superstiti nella nave che li aveva ricondotti in Europa. Moria
Ovest Rexol Isola Atlas. Confesso a voi, padre Juan Pérez, che ancora conservo tale
idolo insieme al ricordo delle meraviglie vedute nella città sottomarina.
Lasciai il villaggio stringendo le mani dei molti indigeni che mi si fecero d'intorno, e
li benedissi sollevando una mano. Raggiunsi la caravella e mi feci accogliere a bordo,
fingendo d'essermi perduto nella foresta. L'imbarcazione ripartì per le coste europee
giungendo nel porto di Cadice il 10 gennaio 1494, città che prestp lasciai per tornare a
La Rabida. Qui voi mi accoglieste nuovamente, domandandomi se i miei studi sul regime dei
venti atlantici avessero avuto un buon corso. Io annuii, promettendo che vi avrei inviato
un resoconto dei giorni spesi a Cadice.
Questo mio scritto è l'adempimento della promessa fatta quel 13 gennaio davanti a voi.
N
el cuore ho sentimenti e passioni contrastanti. Meraviglia per lo splendore della città che ho raggiunto. Pena per i molti innocenti che vi hanno trovato la morte. Stupore per la purezza di costumi degli indigeni che mi hanno accolto. Inquietudine per la scoperta dei crimini compiuti dai Cavalieri del Tempio nelle terre d'Occidente. Soddisfazione per esser riuscito ad ottenere la prova delle molte congetture fatte negli anni passati. Pentimento per non aver mai reso alcuno partecipe delle vicende vissute. Lode per le meraviglie dell'Altissimo. Timore per le popolazioni indiane, che potrebbero perdere la purezza dei loro principi entrando in contatto con la corrotta mentalità della nostra Europa. E ammirazione per l'ammiraglio Cristobal Colón, del quale udii ancora notizia in una lettera ch'egli stesso mi inviò. In essa mi espresse la sua preoccupazione per gli uomini che secoli prima non avevano fatto ritorno in Europa dalle terre di Ponente, e per non esser più riuscito a raggiungere l'arcipelago di Aramburu, ove erano state perpetrate su di loro efferatezze innominabili. Aveva deciso di non lasciare che il loro richiamo cadesse nel silenzio, e scrisse di voler lasciare ai posteri un riferimento al quadrato del Rexol nella sua firma, insieme alle indicazioni per raggiungere le isole di Ponente. Nel suo autografo, infatti, ritrovai codificate le parole lasciate secoli or sono dai sopravvissuti alla tragedia:
Non so quanti potranno ritrovare, nella piramide di lettere, il riferimento al quadrato
del Rexol ed alla meridiana di Frixlanda. Forse soltanto io riesco a scorgerlo, e penso di
dover affidare a voi, padre, il messaggio che si cela nella firma dell'ammiraglio
Cristobal. Egli ha tratto dal quadrato alcune lettere, che ha disposto in croce sopra il
suo nome: Moria Ovest reXol Ysola Atlas. Al centro si trova la M: Sotto questa
compare la O, alla sinistra la X, a destra la Y, e sopra la A. Sovrasta la croce il
disegno che compariva sul manoscritto di Aramburu, composto dalle tre lettere della
meridiana: S.S.S., Sine Sole Sileo. L'ultima riga è l'unica facilmente
comprensibile da chi non conosce gli eventi di cui egli fu protagonista: "portatore
di Cristo", in italiano Cristoforo.
Soltanto io so che il richiamo impresso nel nome dell'ammiraglio non ha più speranza
d'esser udito, né nelle terre di Ponente gli antropofagi perpetrano più i loro riti su
innocenti vittime.
Cristobal morì il 20 maggio 1506, senza mai sapere ch'io avevo raggiunto l'arcipelago di
Atlantide. Sotto le acque dell'oceano riposa ancora una civiltà che diecimila anni fa è
stata fiorente. La sua scoperta mi ha fatto dubitare dell'affermazione per cui la
Creazione sarebbe avvenuta 3760 anni prima di Cristo. Ora so che il Cosmo affonda le sue
radici in un passato molto più lontano, e senza timore reputo, con padre Antonio de
Marchena, che questo non sia in contraddizione con i testi biblici. I sette giorni della
Creazione potrebbero consistere in ere, in millenni, o forse in migliaia di millenni. Il
mio pensiero si perde nell'infinità del tempo passato, nel quale scorge immagine del
Sommo Creatore. E a lui va la mia lode, per avermi fatto raggiungere una terra che forse
mai più alcuno riuscirà ad ammirare. Udii, infatti, sul finire del secolo notizia di una
tribù sterminata dai conquistatori europei perché i suoi componenti celebravano un culto
simile a quello cristiano, utilizzando invece del pane dei frutti bianchi e al posto del
vino, una bevanda ottenuta spremendo bacche simili a more. Gli europei, scandalizzati per
un rito a loro dire sacrilego, bruciarono ogni capanna ed ogni croce che ritrovarono sul
loro cammino. Non potei non pensare che si trattasse del pacifico villaggio ove ero stato
accolto nelle Indie. Lo sterminio ha cancellato gli ultimi uomini che conoscevano ancora
il tragitto per giungere ad Atlantide. Soltanto la meridiana di Frixlanda consentirà agli
uomini che verranno dopo di noi di approdarvi. Ma qualcuno riuscirà a coglierne il
riferimento nella firma di Colón?
Ripenso con nostalgia ai giorni trascorsi curvo su carte e portolani. E più volte le
lacrime mi sgorgano senza sosta al ricordo delle notti illuminate dalla luna, durante le
quali il rollìo della nave mi cullava dolcemente, riportando la memoria ai giorni in cui,
infante, ero stretto tra le braccia di mia madre. La mia lode parte dunque dal mare,
l'immenso deserto ove l'uomo non è mai solo perché sente la vita fremere accanto a lui,
il veicolo d'una sovrannaturale e prodigiosa esistenza, movimento e amore, infinito
vivente. E da qui si innalza al Sommo Creatore, nella cui mente tutto ha preso forma e
materia, nelle cui mani affido ciò che ancora mi rimane da vivere. Sit nomen Domini
benedictum, ex hoc nunc, et usque in saeculum, a solis ortu usque ad occasum laudabile
nomen Dei.
Postfazione bibliografica
Può stupire un approccio medievale al problema Atlantide. Non è
d'altronde usuale accostare l'ammiraglio genovese Colombo al Continente Perduto.
Seri studi archeologici, però, sembrano confermare ogni parola del manoscritto di padre
Armand, a partire dall'esistenza di mappe segrete che circolavano nel Portogallo del XV
secolo. Possediamo ancora oggi l'inspiegabile carta di Piri Re'is, ritrovata nel 1929 ad
Istanbul (l'antica Costantinopoli) e risalente al 1513, e gli studi di Charles Hapgood
(Maps of Ancient Sea Kings) hanno scatenato una vero filone di seri studi scientifici
sull'argomento Atlantide: dallo sconcertante La fine di Atlantide (When The Sky Fells. In
Search of Atlantis) di Rand e Rose Flem-Ath, del saggio che collega l'Atlantide
all'Egitto, Da Atlantide alla Sfinge (From Atlantis to the Sphinx) del giornalista inglese
Colin Wilson, e del monumentale Impronte degli dei (Fingerprints of the Gods) di Graham
Hancock, già celebre per il suo Il mistero del Sacro Graal. E' stata, inoltre, da pochi
giorni annunciata una spedizione alla ricerca della città perduta che partirà dalla
Bolivia a metà dell'anno 1998.
Altri dati, inoltre, confermano le conclusioni cui si giunge dalla lettura del manoscritto
di padre Armand, il cui valore storico-archeologico è inestimabile, foss'anche solo per
la spiegazione che il religioso dà della firma di Cristobal; assolutamente sorprendente,
se si considera il fatto che l'ammiraglio abbia incominciato ad utilizzarla solo alcuni
anni dopo la scoperta dell'America (si veda, ad esempio, Cesare de Lollis, Cristoforo
Colombo nella leggenda e nella storia, prima ed. 1892). E non dovrebbe far sorridere la
possibile esistenza di una terra sommersa nell'oceano Atlantico, se si pensa che, in
seguito ad uno studio di J. Manson Valentine e Dimitri Rebikoff, rispettivamente
archeologo specializzato in ricerche sottomarine e ingegnere sommozzatore, nel 1968 sono
state individuate, nell'arcipelago delle Bahamas, e in particolare nelle acque a nord
della piccola isola di Bimini, svariate strutture formate da grossi massi regolari e
disposti secondo una geometria artificiale, frammenti di marmo che potrebbero riguardarsi
come parti di statue frantumate, disegni realizzati con pietre di diverse dimensioni, che
si direbbero riproducenti determinate costellazioni, a cominciare dalle Pleiadi.
E' del 10 settembre 1997, inoltre, la notizia del ritrovamento di un cimitero di navi
medievali sul fondale della laguna di Venezia, il cui annuncio è stato dato a Ustica, in
un incontro promosso da "Archeologia viva" [87]. Non so se il manoscritto di Armand giunga dall'interno di una di tali
imbarcazioni, né prevedo che il suo resoconto sarà mai messo al vaglio degli studiosi,
un po' per la mancanza di rigore nelle sue descrizioni geografiche, ma soprattutto per
l'atteggiamento della Scienza Ufficiale nei confronti del Continente Perduto.
Se anche la meridiana dell'isola Frixlanda (un'isola al largo dell'Irlanda) venisse
ritrovata, il fenomeno della deriva dei continenti renderebbe impossibile la
determinazione del percorso da compiere per raggiungere l'arcipelago di Atlantide. Né è
determinabile con certezza l'ubicazione della città da Armand descritta. Il fatto che
egli abbia toccato le coste indiane, comunque, non può essere certamente arrecato in
dubbio: prova ne è l'idolo atlantideo che era allegato al manoscritto del frate francese.
Attualmente si trova nella mia casa. La sua fattura è all'apparenza troppo curata per
risalire a millenni fa, ma il fatto non deve stupire: nel 1873, a Hissarlik, Paul
Schliemann ritrovò un vaso di bronzo che conteneva varie piccole immagini di metallo,
monete e oggetti di osso fossilizzato. Su alcuni degli oggetti e sul vaso era inciso in
geroglifici fenici "Dal Re Chronos di Atlantide" (Alberto Cesare Ambesi,
Atlantide il continente perduto). L'idolo che possiedo riporta - sul retro - l'incisione
del nome di Alexico, che nel manoscritto di Armand è marito di Leucippe e padre di Clito,
la ragazza che generò con Poseidone i primi dieci re di Atlantide. Con grande cura, la
conservo come ultimo testamento lasciato dalla civiltà di Atlantide, scomparsa millenni
or sono al tramonto dell'Era del Leone.
Ciò che non muore, invece, è la speranza che questa traduzione possa giungere come un
invito a ritrovare, sotto l'oceano Atlantico, ciò che rimane del Continente Perduto.
Perché allora, come scrivono Rand e Rose Flem-Ath, "Rinascerebbe la ricerca, passato
e futuro si riunificherebbero, il mito potrebbe fondersi con la scienza".
Celebreremmo, allora, un uomo vissuto cinque secoli fa, capace di sfidare il tempo e di
accompagnare noi, uomini del XX secolo, negli oscuri abissi oceanici.
Sulle tracce di Atlantide.
Mariano Tomatis
17 settembre 1997
Note al testo
[1] Prova del complotto potrebbe essere il fatto che il nome di Padre
Armand de Châteauroux non compaia in alcun documento del monastero di Cîteaux. Il suo
nome sarebbe stato cancellato in seguito alla sua fuga.
[2] Gran Khan.
[3] Armand si sbaglia di due anni. L'Impero Ottomano conquistò l'Asia Minore nel 1453,
otto anni prima del 1461.
[4] Con il termine Asia si indicava il territorio dell'Asia Minore.
[5] a.C circa.
[6] V sec. a.C.
[7] Prima metà del III secolo a.C.
[8] a.C. circa.
[9] Conosciuto oggi come Indicopleuste Cosma, fu uno scrittore bizantino d'origine egizia
vissuto nel secolo VI.
[10] Con questo sintagma, che significa testualmente "giardino segreto", nel
medioevo si indicava il Paradiso Terrestre.
[11] Nel 1474 il fiorentino invia una lettera e una carta da lui stesso disegnata al
canonico portoghese Fernando Martins, da lui conosciuto in Italia, in cui assicura che la
via dell'Ovest è quella più breve per raggiungere le Indie, confermando così la tesi di
Aristotele e Marino di Tiro.
[12] Equivalenti a circa 38400 chilometri. In realtà la circonferenza è di circa 40000
chilometri.
[13] Così veniva chiamata Tunisi.
[14] Si tratta di Cristoforo Colombo, indicato da Armand con il suo nome spagnolo.
[15] Questa incursione è documentata in una lettera inviata da Colombo a Ferdinando
d'Aragona. Alcuni storici dubitano della possibilità che egli sia effettivamente
riuscito, con il trucco della bussola, a dirigere la nave verso Tunisi. Si tratta di un
particolare, però, che compare nelle prime biografie dell'ammiraglio genovese.
[16] The Voyage and Travayle of Sir John Maundeville.
[17] La leggenda di un regno governato da un certo "Prete Gianni" nasce nel
1165, quando l'imperatore bizantino Manuele riceve una lettera in cui il mai identificato
sovrano offriva i suoi servigi e descriveva il suo regno cristiano al di là del mare.
[18] Potrebbe trattarsi dell'antica città fenicia Thymiaterion, che sorge sulla foce del
fiume Sebu. Fu fondata da Annone il Navigatore nel V secolo a.C.
[19] Si tratta di un riferimento ad un testo realmente esistente.
[20] Il legno particolarmente pregiato utilizzato per la costruzione di navi spesso non
veniva bruciato, bensì riutilizzato per realizzare contenitori o adirittura costruzioni.
[21] Il quadrato del Sator è composto dalle parole sovrapposte sator arepo tenet opera
rotas. Le parole possono essere lette da destra a sinistra e viceversa, oppure
dall'alto in basso, e al contrario: la loro traduzione potrebbe essere "Il seminatore
Arepone tiene all'opera le ruote".
[22] Compare sull'arco del campanile della parrocchia di Santa Maria Ester, a San Felice
del Molise (Campobasso), sul pavimento della chiesa di Pieve Terzagni (Cremona), nel
convento di Santa Maria Maddalena a Verona, a Bolzano, in un convento della Val Seriana, a
Siena, a Fabriano, a Urbino, a Sermoneta, a Capestrano e a Magliano de Marsi.
[23] Potrebbe trattarsi dell'attuale Ghana.
[24] Sono le parole usate da Ferdinando Colombo nel suo ritratto del padre dato in Le
Historie della vita e dei fatti di Cristoforo Colombo.
[25] Armand riporta le parole scritte da Ruy de Pina nella Storia generale delle Indie
in La Découverte de l'Amérique.
[26] Particolare riportato anche da F. Colombo in op.cit.
[27] Gli studiosi ritengono, oggi, che si tratti di una copia realizzata dallo stesso
Colombo. Si veda, ad esempio Michel Lequenne, Cristoforo Colombo ammiraglio del mare
Oceano, Electa/Gallimard, 1992, p.39: "Colombo... certamente non è stato in
corrispondenza con Toscanelli, come pretendeva, limitandosi a ricopiare delle lettere
inviate da costui a Martins così come probabilmente la carta annessa."
[28] Come si vedrà in seguito, le isole cui si riferisce Colombo sono da identificarsi
con l'Irlanda e l'Islanda.
[29] Così venivano definite le isole del Nord da Tolomeo.
[30] Nonostante non si abbia notizia del testo Geos di Marcello, si ha tuttavia
menzione della leggenda del "drago d'oro" in un papiro del Medio Regno
(2000-1750 a.C.), cui il filosofo dev'essersi ispirato per la sua trattazione. Si veda, a
proposito, il testo di Alberto Cesare Ambesi, Atlantide, il continente perduto,
Xenia 1994, pp.61-62.
[31] Armand si riferisce al drago rosso con sette teste citato nel libro dell'Apocalisse
al capitolo 12, versetti 3 e segg.
[32] Di questo viaggio si ha notizia in tutte le principali biografie di Cristoforo
Colombo. Si veda, per esempio, Michel Lequenne, Cristoforo Colombo... op.cit.,
p.38: "...nel Febbraio 1477... Colombo si imbarca per un viaggio decisivo nei mari
del Nord. Raggiunge l'Islanda, la Thule di Tolomeo, che egli ritiene si trovi a ovest del
meridiano delle Canarie in cui il geografo alessandrino la situava, deducendo da ciò che
questi chiamava così le isole Faeroer, a quel tempo conosciute come Frislandia."
[33] In una lettera indirizzata alla nutrice del principe don Juan de Castiglia, citata da
Ferdinando Colombo ma che non ci è pervenuta, Cristoforo afferma di non essere il
"primo ammiraglio della famiglia".
[34] Si tratta di una delle isole Faeroer.
[35] Devil Hoof Willy si può tradurre con "Willy, zoccolo di diavolo". Il suo
nome derivava, forse, dalla deformazione del suo piede, detta del "piede
caprino".
[36] Corrisponde al nome di una sorta di "Messia" Azteco, atteso per secoli
dalle antiche popolazioni del Sud America. Si veda a questo proposito Colin Wilson, Da
Atlantide alla Sfinge, Piemme 1997, cap.V e Graham Hancock, Impronte degli Dei,
Corbaccio 1996. Le varie terre erano, probabilmente, identificate sulla mappa con i nomi
delle divinità che le proteggevano: Rex Olympii dovrebbe riferirsi a Zeus (o
Giove), Rex Maris a Poseidone (o Nettuno).
[37] "Senza sole taccio". Si riferisce al fatto che la meridiana può segnalare
l'ora soltanto nei giorni di sole. Si tratta di una frase che, ancora oggi, compare su
moltissime meridiane d'Europa.
[38] Siracide 43, 1-3.5.
[39] Salmo 18, 2.5-7.
[40] Esodo 15, 17.
[41] Armand definisce "costa inglese" il territorio di Galway, nella parte
occidentale dell'Irlanda.
[42] Dallo studio della biografia di Colombo si constata che effettivamente il viaggio
verso le isole Faeroer non si era concluso lì. Scrive, infatti, Michel Lequenne:
"Colombo afferma di essere andato al di là, senza precisare se a nord o a ovest, e
in ogni caso senza toccare nuove terre. Al contrario, senza dubbio nello stesso viaggio,
raggiunge l'Ovest dell'Irlanda: a Galway vede, in alcune barche alla deriva, delle persone
morte, di statura e tipo sconosciuto, che egli identifica come cinesi (del Cathai), e che
probabilmente erano invece dei lapponi o degli indiani.
[43] Finestra del profeta Giona. NdT.
[44] Si veda, a proposito, il Vangelo di Luca 8, 22-25.
[45] Si è tentato di risalire ai passi biblici cui il chierico si è ispirato. Ognuno è
segnalato con una nota a pié pagina. Questo primo brano è tratto dal Salmo 88, 8.17-18.
[46] Salmo 42, 8.
[47] Salmo 69, 2-3.15-16.
[48] Salmo 89, 10.
[49] Giona 2, 3-4.6-8.
[50] Giobbe 38, 4-6.8-11.16.22-23.34-35.42,2.
[51] Geremia 50, 11.
[52] Esodo 15, 4-6.
[53] E' una delle isole dell'arcipelago di Madera.
[54] Gli studiosi ritengono che la Geografia di Tolomeo sia stata stampata la prima
volta nel 1478. Armand sostiene, invece, che la copia da lui vista risalirebbe a
"quattro anni prima". Da ciò si possono avanzare due ipotesi: o egli si
riferisce all'anno 1482, per cui la copia risulterebbe correttamente datata 1478, oppure
la stampa del testo tolemaico risalirebbe al 1477 e non all'anno successivo, come
sostengono gli storici. Questa seconda ipotesi sembra la più corretta, data la presenza
di un successivo riferimento alla morte di re Alfonso V di Portogallo, avvenuta nel 1481.
[55] Padre Antonio da Marchena fu effettivamente un fedele sostenitore delle idee di
Cristoforo Colombo.
[56] Avvenuta nel 1481.
[57] Le proposte furono avanzate tra il 1483 e l'anno successivo.
[58] Si tratta del Capo di Buona Speranza, così chiamato dal re Giovanni II di
Portogallo.
[59] Filippa Moniz Perestrello morì nel 1485.
[60] Secondo gli storici, Medinaceli.
[61] Armand non specifica la data in cui si riteneva fosse avvenuto il Diluvio Universale.
D'altronde è vero che, nel 4000 a.C., il nord era indicato da Alpha Draconis. Si veda, a
questo proposito, Colin Wilson, op.cit., p.77.
[62] Padre de Marchena commette un errore di 80 anni: se si fa risalire la fondazione di
Roma al 754 a.C., il 1486 corrisponde al 2240 ab urbe condita; il ciclo della
precessione, invece, dura 2160 anni.
[63] Ipotesi dovuta all'erronea credenza che il mondo fosse stato creato nel 3760 a.C.
[64] Nel 1488.
[65] Nel 1491.
[66] Si tratta del navigatore fiammingo Ferdinando Van Olmen.
[67] Il problema venne risolto soltanto nel 1823 da János Bolyai e Nikolaj Lobacevskij,
che introdussero il concetto di geometria non-euclidea; Armand accenna ad un
concetto relativo alla geometria ellittica.
[68] In realtà l'Era dei Pesci iniziò nel 170 a.C. Armand commette un errore poiché
considera un ciclo equinoziale pari a 2240 anni, invece che 2160.
[69] La prossima Era del Leone durerà, invece, dal 14950 al 17110 d.C.
[70] La passata Era del Leone durò, invece, dal 10970 all'8810 a.C.
[71] Non tradotta dal testo originale.
[72] aprile 1492.
[73] Erronea credenza che anche Colombo aveva.
[74] Esiste un'unica testimonianza dell'esistenza del "timone di poppa"
antecedente al XV secolo: si tratta di un bassorilievo che compare sulla facciata della
cattedrale di Westminster, risalente al XII secolo.
[75] Della roccaforte sono rimaste due massicce torri che proteggono il porto; si veda, a
proposito, "Il mistero di La Rochelle" in Angela Cerinotti, Storia e leggende
dei Templari, Demetra 1997, pp.68-69.
[76] Figli cadetti delle più nobili famiglie, ricchi di nomi e titoli ma poveri di
sostanze, spinti dal sogno di aggiungere al loro casato la proprietà di qualche nuova
terra.
[77] Particolare riportato anche da Cesare De Lollis, Cristoforo Colombo nella leggenda
e nella storia, Sansoni, 1969 (I ed. 1892), p.134.
[78] Sono le parole del Salmo 24.
[79] Il ritrovamento è documentato da Cesare De Lollis in ibid.
[80] Nella lingua degli indigeni significava "pietra".
[81] Il mito è riportato da D.Gifford e J.Sibbick in Warriors, Gods and Spirits from
South American Mythology, 1983, p.54.
[82] Termine riportato in Alberto C. Ambesi, op.cit., p.45.
[83] Si riferisce sicuramente alle popolazioni maya e azteche.
[84] Per il fenomeno della deriva dei continenti, se la meridiana fu posta sulle isole
Faeroer prima del 9000 a.C., all'epoca di Armand non poteva più fornire l'esatta
direzione da seguire per raggiungere l'arcipelago rimasto dalla catastrofe. Potrebbe
essere questo il motivo per cui, nel 1477, la spedizione di Colombo non approdò alle
dieci isole.
[85] Tikal e Palenque sono due centri dell'America Centrale.
[86] Le misure corrispondono, pressappoco, a 89 x 20 x 9000 metri.
[87] Tuttoscienze n.785, allegato a La Stampa del 10 settembre 1997.
L'autore può essere contattato all'indirizzo marianotomatis@geocities.com
Mariano Tomatis ha realizzato la prima pagina italiana dedicata al Santo
Graal
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Questa pagina è stata resa disponibile on-line il 20 settembre 1997