Progetto Via Crucis
Museo d’Arte Moderna Vittoria Colonna, Pescara
Casa della Cultura, Spoltore
8-22 aprile
2006
Ideazione di Alessandra
Caneva e Emiliano Giannetti
Opere di Michel
Pochet
Musiche di Franz
Liszt
Testi di Alessandra
Caneva
Ilaria Verna, curatrice della mostra e responsabile video del concerto
Il nostro tempo
sembra fare del tutto per esorcizzare il dolore, per anestetizzarlo, per sfuggirlo. Spesso si rinuncia a vivere per non dover incontrare
la sofferenza, perché si ha paura di guardarla in faccia e si teme sia l'annullamento del nostro essere.
Michel Pochet, con la sua arte, lancia
un messaggio profondo e straordinario: il dolore è l'unica
esperienza umana che rivela all'uomo e all'umanità il mistero della
vita, esso non annulla l'esistenza, ma la esalta rivelandogli il
"Bello" della vita che si nasconde in ogni uomo, nel quotidiano e in
ciò che appare brutto e banale.
L’artista trae la sua ispirazione da una profonda esperienza
di spiritualità cristiana che illumina tutte le sue produzioni, tanto da
trasmettere inevitabilmente a chi 10 avvicina, un grande
senso di trascendenza.
La proposta di realizzare l'evento artistico, "Via
Crucis", in questo tempo di Pasqua, si è presentata subito come
un'entusiasmante opportunità per la Presidenza dei Consiglio regionale, quale occasione per riflettere sul mistero della morte e
resurrezione di Cristo, punta cardine dell'esperienza cristiana.
Esiste un modo di porsi di fronte al dolore che non è
ribellione disperata, né rassegnazione fatalistica, ma con la sua accettazione la si trasforma in momento di maturazione feconda che si
radica in un vuoto d'amore.
Del resto, la stessa umanità ha conosciuto i momenti più
esaltanti, costruttivi, solidali, quelli che la storia puo
definire "rigeneranti", dopo le guerre, i crolli e le distruzioni..., quando tutto sembrava perduto. Cosi è
per la vita di ogni uomo.
Lasciamo che l'arte con le sue forme, colori e melodie ci accompagni a contemplare questo infinito mistero pasquale
che da senso al dolore e riscatta ogni sofferenza per riscoprire la gioia,
quella sobria ed appagante.
Marino
Roselli
Il
Presidente deI Consiglio Regionale dell'Abruzzo
Michel
Pochet
Spiritualità ed espressione - Arte come
“essere” dell’esperienza.
di Antonio Zimarino
L’arte di Pochet è realmente
complessa nella sua apparente semplicità: formalmente si lega ad una ascendenza pittorica espressionista o post
espressionista ma la sua sensibilità specifica nel costruire e trattare le
forme appare più attenta alla trasversalità “concettuale” delle arti
contemporanee, che a definibili scuole pittoriche. La sua pittura non appare
tesa a seguire “campi” di riferimento, aree segniche
codificate in scuole, ma espressionisticamente
insegue le necessità del “fare”, del presentare la propria intuizione,
attraverso un approccio pittorico “formativo” che scaturisce prevalentemente
all’interno del processo stesso di realizzazione
dell’opera. E’ l’intuizione da esprimere che guida il processo formale e
l’universo segnico si dispone secondo il ciceroniano res tene, verba sequuntur, mira ad
esprimere ciò che intendi, e le parole verranno in conseguenza.
Questo approccio “antiscolastico”, nel senso di “non
riferibile a scuole”, ha però dei propri “luoghi” espressivi costanti, dei modi
ricorrenti di strutturare l’espressione visiva:
prevalenza di una costruzione iconica bidimensionale, tendenza ad occupare la
superficie pittorica a partire da un centro per disporsi verso ai margini della
superficie, suggerimento costante di una “uscita di campo” verso lo spazio
dell’osservatore; uso delle grandi dimensioni, cercate come modo di investire
lo spazio e modificarlo o come modo di “entrare” nello spazio, componendolo; il
colore, dato per dominanti azzurre o calde attraverso diffusioni eteree che
suggeriscono l’effetto dissolvente e compenetrante del pastello, la perdita di
riferimenti certi all’occhio, costretto a soffermarsi sul colore, seguendo le
tracce delle linee; la centralità del volto e degli occhi, la semplice
delineazione di figure apparentemente infantili, che emergono da campi
magmatici di colori accesi.
Il
compito ingrato di chi studia l’arte è quello di compiere un’operazione che
all’artista stride e che l’appassionato d’arte non ama: dare senso storico e
culturale ad una intuizione creativa e ad un
esperienza dell’anima, riportando ciò che la sensibilità coglie nell’essere
stesso e nel proporsi dell’opera, ad una dimensione intellettuale, che la
“deificherebbe”, misurandola, confrontandola, pretendendo di dire cosa essa sia
o non sia. Se questo è stato per molto e troppo tempo un’urticante presunzione
della cosiddetta “critica”, oggi siamo in una
condizione storica e culturale (e per che no, spirituale) che getta i fondamenti
per un idea del “pensare” sull’arte molto differente, che ne rispetta
profondamente l’autonomia e l’identità, non pretendendo di sostituirsi ad essa,
ma affrontandola con molta modestia, per comprenderne attraverso le forme, la
densità della sua sensatezza. In questa operazione, il
pensiero sull’arte, ricostruisce pazientemente ambiti e possibilità di senso,
per provare a collocare la creatività in “ambiti” che la rendano, se non più
chiara, almeno in grado di dialogare meglio e più o meno in profondità con i
grandi temi del pensiero e dell’esistenza.
Chiedo
scusa, ma questo inciso mi sembrava importante per
parlare delle opere di Michel Pochet.
Da un lato si ha timore nel pretendere di spiegarne o interpretarne l’altissima
sostanza spirituale e la densità dell’esperienza che la sostanzia, ma
dall’altro appare necessario chiarire come e se esse possano
parlare all’interno di un sistema immaginale e culturale che pure appartiene
alla nostra quotidianità. E’ possibile dire il senso “culturale” di questa pittura ? E’ importante farlo? La sua alta sostanza non basterebbe
da sé a comunicarne il valore? Alle sensibilità affini, alle anime formate
forse si, certo; ma a quelle che per altre vie attraversano tempeste e si
aggrappano a rottami casuali di senso, in un oceano fatto di apparenze
delle quali colgono la vacuità ma non sanno dove trovare un porto possibile?
La cultura è una strada d’accesso al senso
dell’immagine, attraverso la “densità” che essa esprime: l’universo dei segni
che in una esperienza individuale si condensano in
immagine / forma, appartiene anche al vedere e al sentire di coloro che ne
condividono il mondo. Il disporsi dei segnali visivi, apre le “sintassi”
dell’universo immaginale alle implicazioni, ad altre relazioni, ai campi
intellettivi, al “senso” che esse hanno, (indipendentemente persino dalla
volontà e dall’intenzionalità di chi le ha realizzate) per coloro
che abitano lo stesso spazio di Umanità dell’artista.
Le forme di Michel ci
suggeriscono la “centralità” dell’Uomo e del suo volto, specchio e veicolo
della condizione interiore dell’anima; il suo essere misura dell’avventura
spirituale, spesso espressa dagli occhi, chiarissimi, trasparenti o da occhi
velati, incantati, sovrapposti; in taluni lavori la Natura compare in modo astrattivo e poetizzato dall’accensione di colori primari a
suggerire la percezione intima più che il racconto, che pure si coglie per
segnali visivi (lacrime, fuoco, spine, dilavature di
colori, segni decisi); altro tratto formale importante è l’abilità con cui Pochet traccia con pochi segni la delineazione di una immagine che appare fusa con il magma cromatico: non
importa se sia nato prima il “segno”, la delineazione chiarificatrice o la
pulsante materia indistinta, importa che tra loro rapporto si realizzi, come a
tenere sospesa in un equilibrio possibile e mobile, la dimensione “spirituale”,
l’idea e la sua dimensione incarnata. Attraverso questa via le opere di Pochet si fanno metafore della stessa esperienza spirituale
che raccontano.
Il dipinti finiscono così per avere una relazione empatica
e spaziale con chi li osserva, come se si donassero, come se intendessero
partecipare di sé: non sono racconti di un contenuto, ma esperienze del
contenuto; l’iconografia non è assemblaggio di materiali codificati per un
discorso, ma nasce in quanto necessaria a quel concetto: è dunque una
operazione realmente concettuale, nel senso che il darsi dell’immagine si
relaziona alle modalità che l’artista ha colto e meditato dall’esperienza che
ha realizzato. I materiali, spesso tele, lenzuoli non tesi, partecipano
dell’immagine rendendola non illustrazione di un concetto teorizzato, ma
materia mobile e sensibile allo spazio, proveniente dai materiali quotidiani,
resi materia di riflessione, bellezza ed esperienza dall’averli lavorati.
Mi torna in mente una mia profonda esperienza di pittore. Dodici anni fa,
dopo ventiquattro anni passati in Belgio come responsabile del movimento dei
Focolari, ero stanco e ho dovuto riposarmi. Un grande amico mi ha invitato a
passare un periodo di vacanze in una cittadella del movimento in Croazia, già
indipendente, ma ancora in guerra.
L'amico Ivan Bregant voleva farmi dipingere.
Non ero nella condizione mentale favorevole, e, per via della
guerra, mancava il materiale. Ho trovato un vecchio lenzuolo, sporco,
strappato e qualche resto di pittura. Ho dipinto.
Un altro amico, Bostian, sorpreso del mio
lavoro, pensò che dovesse esistere, da qualche parte, il secondo lenzuolo del
paio. Trovato, pulito, stirato, me lo consegnò per un altro capolavoro. Era
consumato, bucato, sbrindellato, da buttare. Ero desolato. Come non disilludere
Bostian?
Guardavo con angoscia il relitto
che si sfilacciava, e mi venne in mente Gesù
Abbandonato. Anche lui era crivellato di ferite,
sfinito, consumato, logoro fino alla trama, anche lui si sfilacciava. Consummatum est. Doveva essere possibile dipingere
proprio su questa tela così ridotta, perché così sfilacciata e logora fino alla trama, il viso piagato, di chi è al centro
di ogni mio pensiero, della mia vita, soggetto che si presenta sempre quando
dipingo e quando scrivo.
Coccoloni sul vecchio lino disteso per terra, incominciai a dipingere.
Era estenuante perché le poche vernici e il diluente che avevo potuto
racimolare nel supermercato, vuotato dalla guerra, non si combinavano rendendo
il lavoro quasi impossibile. Sudavo su questo sudario. Il viso in fuoco, le
braccia stanche, le gambe indurite da crampi, vera icona del velo della
Veronica che dipingevo, incurante del mio sfinimento, mi costrinsi a completare
l'opera.
Senza sosta, per ore, dipinsi freneticamente il monumentale viso
sanguinante, brutto, di un uomo dei
dolori, un uomo fatto a brandelli, la fronte bucata da lunghe spine nere, le
guance tumefatte, le spalle lacerate dalla frusta.
Ma sul finire della
giornata, con stupore, mi accorsi che per la scelta dei colori che mi era stata
imposta dalla penuria la tonalità generale della tela non era di lutto ma di
felicità. Senza accorgermene non avevo dipinto l'Abbandonato, ma il Risorto.
Due icone opposte unificate. Il Risorto, con le stigmate
dell'abbandono.
Finora erano due immagini distinte, dittico contrastante. L’Abbandonato e
il Risorto. Avevo dipinto - ed era la prima volta - il Risorto con le stigmate
della passione e della morte.
Ero sgomento e felice.
Guardando a lungo quella pittura che avevo fatto con le mie mani, capivo
l'esperienza estetica di questo secolo come un approfondimento della
comprensione di cos'è realmente la bellezza, e perciò di cosa sia l'arte.
A volte nell’arte contemporanea la bellezza è ridotta ad un grido
inarticolato, ma così si esprime nel modo più totale. Da a
noi il suo Spirito.
Sembra morta, seppellita sotto la pietra del brutto. Ma
il terzo giorno la tomba è vuota. Qualcuno ci dice che è risorta e che ci
aspetta.
Cammina con noi. Ci parla. Il cuore ci arde in petto. Si fa tardi. La
fermiamo a cena, ma gli occhi si aprono nel momento che sparisce. La bellezza
risorta non appare mai: sparisce, si nasconde nell'anonimato dell'uomo
qualunque, nel banale, nel quotidiano. Il sole tramonta, lasciando posto alla
luna, Maria, riflesso della bellezza risorta, sempre
presente lì dove la bellezza è sparita, per guidarci a lei.
La bellezza è sulla riva del lago, irriconoscibile. Un occhio puro
l'intuisce e ci apre gli occhi. Ci buttiamo nell'acqua, e la bellezza nutre la
nostra mente e i nostri sensi, col pane cotto sulla pietra calda.
La bellezza salita con noi sulla montagna è elevato
in alto sotto i nostri occhi e una nube la sottrae al nostro sguardo.
E poiché noi stiamo fissando il cielo mentre ella
se ne va, ecco due: «Perché state a guardare il cielo?
Questa Bellezza, che è stata di tra voi assunta fino
al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l'avete vista andare in
cielo».E noi, sulle vie del mondo, ci ricordiamo le sue parole di congedo: Ed
ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell'età presente.
Gesù è la
bellezza eterna incarnata, bellezza che si nasconde, fino a morire, per poi
risorgere. Questo ci dice tanto della bellezza, se è così, se è come credo. Gesù risorto è uno che ha vissuto la morte, e una morte
atroce, "brutta". Così la bellezza risorta che è adesso in Dio non è una bellezza facile, non è una bellezza piacevole,
non è kitsch, è una bellezza molto provata, fino alla morte. Capisco il
problema di Lucifero, così geloso della bellezza di Dio, quando vede la morte
della bellezza, il "brutto" - se vogliamo chiamarlo così - assunti da
Dio, divinizzati, in Gesù risorto.
Michel Pochet
Il testo:
Via crucis
Alessandra Caneva
A Rinaldo Piras,
che
morendo
ha
contemplato
attraverso queste povere pagine
Non
ho avuto dubbi quando il tipografo mi ha chiesto a chi volessi dedicare
Lo
avevo chiamato, si era ricordato subito di me, ero andata a vedere le sue
sculture ed ero letteralmente rimasta colpita dalla loro bellezza. Degli autentici capolavori ricavati da un particolare marmo che
comprava in Egitto, scolpito con una passione sconvolgente.
Avevamo
entrambi un passato turbolento. Avevamo militato nel ’77 nelle file
dell’estrema sinistra. Ci eravamo battuti contro le
ingiustizie sociali. L’idea di una dimensione trascendente della vita, allora
non ci aveva sfiorato. E invece, diventammo entrambi
degli artisti, nella nostra materia specifica, lui nella pietra, io nella
parola, nel tempo, distanti uno all’altra e in forme diverse ci siamo accorti
di aver fatto un cammino esistenziale simile.
Dopo
solo un mese dal nostro incontro in maggio, Rinaldo ha scoperto di avere un
tumore al pancreas. Era spacciato. Ha cominciato a soffrire, io gli sono stata
vicina e l’idea di scrivere una Via Crucis mi è venuta seguendolo passo passo nella sua vita dolorosa.
Lui
aveva scoperto Dio, ma non lo sapeva. Io avevo scoperto Dio, ma mi sfuggiva il senso profondo del dolore. Lui ha aiutato me, io ho
aiutato lui e come un cerchio che si chiude, l’ho
visto morire serenamente anche se lasciava due figli, una moglie meravigliosa,
Elena, e una carriera artistica che stava decollando alla grande. Lasciava
molto, ma affermava di aver trovato quel “Padre” che la vita gli aveva negato.
Ha
provato a disegnare le 14 stazioni, ci teneva tanto, ma è riuscito solo a terminare
la prima.
Il
testo è semplice. Pur ripercorrendo
La
struttura del testo ha un preciso punto di vista: quello di una presenza
angelica, scesa in terra a consolare Gesù nell’orto
degli Ulivi e che segue la passione passo per passo.
È
un angelo e, se non capisce la violenza degli uomini, tanto più è sgomento di fronte all’idea della morte dell’uomo Dio.
L’angelo scruta i sentimenti interiori del condannato a morte, la sua pietà per
il genere umano e spazia pensando al futuro, a quando “molti uomini di domani
si dimenticheranno del sangue che oggi lascerà una scia luminosa tra le scabre
pietre di Galilea”.
“Il
cielo mi ha mandato
per
sostenerti come si sostiene un uomo
ma io so
che non riprenderai la tua gloria
di figlio
di Dio.
Il
tuo silenzio è quello della morte
Ma che cos’è la morte di Dio?”
Da
questa domanda dell’angelo parte il racconto della Passione.
Alessandra Caneva
La musica:
Franz Liszt, Via Crucis S. 504a
La figura di Franz Liszt viene spesso, a torto,
associata a quella del grande virtuoso, protagonista
degli eventi mondani della sua epoca trascurando invece la sua opera come
intellettuale e divulgatore dell’arte. Anche del suo vastissimo repertorio
pianistico, ancora oggi molte opere sono sconosciute al grande
pubblico. Tutta la produzione musicale del compositore ungherese è sempre stata
influenzata, fin dalle sue prime composizioni, da elementi sacri; che
probabilmente preludevano a quel misticismo, non solo musicale che
caratterizzerà soprattutto le sue ultime composizioni. Possiamo ricordare, su tutte, la celebre raccolta di brani pianistici
intitolata: “Armonie poetiche e religiose”. Ma chiaramente, sono molte le sue
composizioni ricche di suggestioni religiose; e questo aspetto
della sua personalità, nonché della sua produzione artistica,lo rende una
figura unica nel panorama del romanticismo europeo.
Secondo
Renato di Benedetto, la
morte del figlio Daniel, appena ventenne, avvenuta nel 1860 riaccese in Liszt quelle tendenze religiose che già una volta, durante
una crisi negli anni giovanili, lo avevano portato ad un passo dalla decisione
di vestire l’abito talare. Lasciata Weimar nel 1861,
si rifugiò a Roma, dove nel 1863 entrò nell’Oratorio della Madonna del Rosario a Monte Mario, dove ricevette due anni più tardi gli ordini
minori. Da questo momento il filone delle sue composizioni
corali e sinfonico – corali di ispirazione religiosa si aggiunse al già
ricco catalogo di composizioni pianistiche e sinfoniche.
Vogliamo
ricordare fra queste composizioni
Questi
insieme alla Hungarische Kronungsmesse
(messa ungherese dell’incoronazione), eseguita a Budapest durante la
cerimonia d’incoronazione di Francesco Giuseppe come re d’Ungheria nel 1867,
sono i titoli più monumentali d’un’ abbondantissima produzione di opere
liturgiche ed extraliturgiche – per lo più corali, con un sobrio
accompagnamento strumentale o con solo organo – che si sviluppa fino agli
ultimi anni della sua vita.
In esse convivono, o talvolta si alternano, la variopinta
ricchezza del nuovo linguaggio sinfonico e l’arcaicizzante “purezza” della
restaurata polifonia vocale; il ripristino della scrittura contrappuntistica
nel suo classico assetto delle quattro voci; che però non gli impedisce nelle
opere più tarde la pratica di un audacissimo sperimentalismo armonico, che si
spinge assai oltre le frontiere della tonalità.
Liszt compose la sua “Via Crucis” fra il 1878 e il
“La devozione delle stazioni della croce, chiamata
Via Crucis, è diventata – in seguito alle affermazioni e ai numerosi consensi dei Pontefici – un
servizio per le anime dei defunti così come un’osservanza religiosa che si diffuse in molti paesi e divenne persino popolare in alcuni
di essi. In alcune Chiese noi possiamo trovare dipinti che mostrano le Stazioni
della Croce, e i membri delle congregazioni recitavano
le loro preghiere prima di ognuno dei dipinti appesi al muro. Qualche volta
queste preghiere erano recitate da singole persone, altre volte da piccoli
gruppi ed in quest’ultimo caso le parole delle
preghiere erano divise tra di loro.in alcune congregazioni il Curato stabiliva la data e
il tempo di ogni servizio ed egli stesso guidava
È facile comprendere che la più solenne e più toccante devozione avveniva il Venerdì Santo al Colosseo,
proprio nel luogo in cui i martiri avevano versato il loro sangue.
Forse qualche volta i quadri non erano del tutto soddisfacenti e così in seguito potrebbero essere
stati sostituiti con opere d’arte create da Galli, lo scultore, e inoltre un grande harmonium potrebbe essere portato
lì così che il suo suono possa supportare il canto.
Io sarei felice in ogni caso, se un giorno la mia musica potesse essere suonata
lì, anche se sarebbe insufficiente ad esprimere la profondissima emozione che mi
sopraffece quando, una volta lì, in quella processione, mi inginocchiai e
ripetei alcune volte queste parole: O! Crux Ave! Spes unica!”
Franz Liszt
Considerando
le indicazioni al testo musicale, Liszt ha in mente
due tipi di rappresentazioni possibili: secondo la prima
Interpreti:
Emiliano Giannetti, ha
studiato pianoforte con Orazio Maione per poi
diplomarsi con Stefano Cucci
presso il Conservatorio “S. Cecilia” di Roma. Laureato con
lode in Storia, Scienza e Tecnica della Musica e dello Spettacolo
all’Università degli Studi “Tor Vergata” di Roma con
una tesi sul pianista e didatta Bruno Mugellini.
Ha seguito numerosi corsi di perfezionamento pianistico con docenti di chiara
fama, interessandosi poi anche al repertorio per fortepiano
ed alla direzione d’orchestra. Ha frequentato
Ileana de Gregorio, attrice, inizia
la sua formazione artistica nel 1996 frequentando il corso di
interpretazione scenica diretto da Carlo Merlo presso Clesis Arte di Roma. Successivamente
segue il corso di dizione tenuto da Gianfranco Migliorelli.
Nel 1998 partecipa al “training intensivo di recitazione”
diretto da Giuseppe Argirò, nello stesso anno
partecipa al “Convegno sul Verso” tenuto da Carmelo Bene presso il
Teatro Valle di Roma. Nel 1999 approfondisce il “Metodo Strasberg”
con Viviana di Bert. Si diploma brillantemente nello
stesso anno presso l’Accademia d’Arte Drammatica “P. Scharoff”
di Roma (Metodo Stanislasky-Grotosky). Recita in
numerosi allestimenti teatrali e cortometraggi, esibendosi in importanti sale
romane (Teatro Euclide, Anfitrione, Colosseo e
dell’Orologio) ed italiane, collabora inoltre alla regia di diversi
allestimenti (“Il contrabbasso” di Suskind presso il
Teatro Tordinona nel 1996) sia teatrali che
cinematografici. Ha curato diversi corsi di recitazione e laboratori teatrali,
dirigendone le rappresentazioni finali.