Progetto Via Crucis

Museo d’Arte Moderna Vittoria Colonna, Pescara

Casa della Cultura, Spoltore

8-22 aprile 2006

Visita della mostra

 

Ideazione di Alessandra Caneva e Emiliano Giannetti

Opere di Michel Pochet

Musiche di Franz Liszt

Testi di Alessandra Caneva

Ilaria Verna, curatrice della mostra e responsabile video del concerto

 

                                                                                                            

Il nostro tempo sembra fare del tutto per esorcizzare il dolore, per anestetizzarlo, per sfuggirlo. Spesso si rinuncia a vivere per non dover incontrare la sofferenza, perché si ha paura di guardarla in faccia e si teme sia l'annullamento del nostro essere.

Michel Pochet, con la sua arte, lancia un messaggio profondo e straordinario: il dolore è l'unica esperienza umana che rivela all'uomo e all'umanità il mistero della vita, esso non annulla l'esistenza, ma la esalta rivelandogli il "Bello" della vita che si nasconde in ogni uomo, nel quotidiano e in ciò che appare brutto e banale.

L’artista trae la sua ispirazione da una profonda esperienza di spiritualità cristiana che illumina tutte le sue produzioni, tanto da trasmettere inevitabilmente a chi 10 avvicina, un grande senso di trascendenza.

La proposta di realizzare l'evento artistico, "Via Crucis", in questo tempo di Pasqua, si è presentata subito come un'entusiasmante opportunità per la Presidenza dei Consiglio regiona­le, quale occasione per riflettere sul mistero della morte e resurrezione di Cristo, punta car­dine dell'esperienza cristiana.

Esiste un modo di porsi di fronte al dolore che non è ribellione disperata, né rassegnazione fatalistica, ma con la sua accettazione la si trasforma in momento di maturazione feconda che si radica in un vuoto d'amore.

Del resto, la stessa umanità ha conosciuto i momenti più esaltanti, costruttivi, solidali, quelli che la storia puo definire "rigeneranti", dopo le guerre, i crolli e le distruzioni..., quando tutto sembrava perduto. Cosi è per la vita di ogni uomo.

Lasciamo che l'arte con le sue forme, colori e melodie ci accompagni a contemplare questo infinito mistero pasquale che da senso al dolore e riscatta ogni sofferenza per riscoprire la gioia, quella sobria ed appagante.

Marino Roselli

Il Presidente deI Consiglio Regionale dell'Abruzzo 

 

 

 


Michel Pochet

 Spiritualità ed espressione - Arte come “essere” dell’esperienza.

 

di Antonio Zimarino

 

L’arte di Pochet è realmente complessa nella sua apparente semplicità: formalmente si lega ad una ascendenza pittorica espressionista o post espressionista ma la sua sensibilità specifica nel costruire e trattare le forme appare più attenta alla trasversalità “concettuale” delle arti contemporanee, che a definibili scuole pittoriche. La sua pittura non appare tesa a seguire “campi” di riferimento, aree segniche codificate in scuole, ma espressionisticamente insegue le necessità del “fare”, del presentare la propria intuizione, attraverso un approccio pittorico “formativo” che scaturisce prevalentemente all’interno del processo stesso di realizzazione dell’opera. E’ l’intuizione da esprimere che guida il processo formale e l’universo segnico si dispone secondo il ciceroniano res tene, verba sequuntur, mira ad esprimere ciò che intendi, e le parole verranno in conseguenza.

Questo approccio “antiscolastico”, nel senso di “non riferibile a scuole”, ha però dei propri “luoghi” espressivi costanti, dei modi ricorrenti di strutturare l’espressione visiva: prevalenza di una costruzione iconica bidimensionale, tendenza ad occupare la superficie pittorica a partire da un centro per disporsi verso ai margini della superficie, suggerimento costante di una “uscita di campo” verso lo spazio dell’osservatore; uso delle grandi dimensioni, cercate come modo di investire lo spazio e modificarlo o come modo di “entrare” nello spazio, componendolo; il colore, dato per dominanti azzurre o calde attraverso diffusioni eteree che suggeriscono l’effetto dissolvente e compenetrante del pastello, la perdita di riferimenti certi all’occhio, costretto a soffermarsi sul colore, seguendo le tracce delle linee; la centralità del volto e degli occhi, la semplice delineazione di figure apparentemente infantili, che emergono da campi magmatici di colori accesi.

Il compito ingrato di chi studia l’arte è quello di compiere un’operazione che all’artista stride e che l’appassionato d’arte non ama: dare senso storico e culturale ad una intuizione creativa e ad un esperienza dell’anima, riportando ciò che la sensibilità coglie nell’essere stesso e nel proporsi dell’opera, ad una dimensione intellettuale, che la “deificherebbe”, misurandola, confrontandola, pretendendo di dire cosa essa sia o non sia. Se questo è stato per molto e troppo tempo un’urticante presunzione della cosiddetta “critica”, oggi siamo in una condizione storica e culturale (e per che no, spirituale) che getta i fondamenti per un idea del “pensare” sull’arte molto differente, che ne rispetta profondamente l’autonomia e l’identità, non pretendendo di sostituirsi ad essa, ma affrontandola con molta modestia, per comprenderne attraverso le forme, la densità della sua sensatezza. In questa operazione, il pensiero sull’arte, ricostruisce pazientemente ambiti e possibilità di senso, per provare a collocare la creatività in “ambiti” che la rendano, se non più chiara, almeno in grado di dialogare meglio e più o meno in profondità con i grandi temi del pensiero e dell’esistenza.

Chiedo scusa, ma questo inciso mi sembrava importante per parlare delle opere di Michel Pochet. Da un lato si ha timore nel pretendere di spiegarne o interpretarne l’altissima sostanza spirituale e la densità dell’esperienza che la sostanzia, ma dall’altro appare necessario chiarire come e se esse possano parlare all’interno di un sistema immaginale e culturale che pure appartiene alla nostra quotidianità. E’ possibile dire il senso “culturale” di questa pittura ? E’ importante farlo? La sua alta sostanza non basterebbe da sé a comunicarne il valore? Alle sensibilità affini, alle anime formate forse si, certo; ma a quelle che per altre vie attraversano tempeste e si aggrappano a rottami casuali di senso, in un oceano fatto di apparenze delle quali colgono la vacuità ma non sanno dove trovare un porto possibile?

La cultura è una strada d’accesso al senso dell’immagine, attraverso la “densità” che essa esprime: l’universo dei segni che in una esperienza individuale si condensano in immagine / forma, appartiene anche al vedere e al sentire di coloro che ne condividono il mondo. Il disporsi dei segnali visivi, apre le “sintassi” dell’universo immaginale alle implicazioni, ad altre relazioni, ai campi intellettivi, al “senso” che esse hanno, (indipendentemente persino dalla volontà e dall’intenzionalità di chi le ha realizzate) per coloro che abitano lo stesso spazio di Umanità dell’artista.

Le forme di Michel ci suggeriscono la “centralità” dell’Uomo e del suo volto, specchio e veicolo della condizione interiore dell’anima; il suo essere misura dell’avventura spirituale, spesso espressa dagli occhi, chiarissimi, trasparenti o da occhi velati, incantati, sovrapposti; in taluni lavori la Natura compare in modo astrattivo e poetizzato dall’accensione di colori primari a suggerire la percezione intima più che il racconto, che pure si coglie per segnali visivi (lacrime, fuoco, spine, dilavature di colori, segni decisi); altro tratto formale importante è l’abilità con cui Pochet traccia con pochi segni la delineazione di una immagine che appare fusa con il magma cromatico: non importa se sia nato prima il “segno”, la delineazione chiarificatrice o la pulsante materia indistinta, importa che tra loro rapporto si realizzi, come a tenere sospesa in un equilibrio possibile e mobile, la dimensione “spirituale”, l’idea e la sua dimensione incarnata. Attraverso questa via le opere di Pochet si fanno metafore della stessa esperienza spirituale che raccontano.

 Il dipinti finiscono così per  avere una relazione empatica e spaziale con chi li osserva, come se si donassero, come se intendessero partecipare di sé: non sono racconti di un contenuto, ma esperienze del contenuto; l’iconografia non è assemblaggio di materiali codificati per un discorso, ma nasce in quanto necessaria a quel concetto: è dunque una operazione realmente concettuale, nel senso che il darsi dell’immagine si relaziona alle modalità che l’artista ha colto e meditato dall’esperienza che ha realizzato. I materiali, spesso tele, lenzuoli non tesi, partecipano dell’immagine rendendola non illustrazione di un concetto teorizzato, ma materia mobile e sensibile allo spazio, proveniente dai materiali quotidiani, resi materia di riflessione, bellezza ed esperienza dall’averli lavorati.

                                           

Il Risorto con le stigmate dell'Abbandono

 

 

Mi torna in mente una mia profonda esperienza di pittore. Dodici anni fa, dopo ventiquattro anni passati in Belgio come responsabile del movimento dei Focolari, ero stanco e ho dovuto riposarmi. Un grande amico mi ha invitato a passare un periodo di vacanze in una cittadella del movimento in Croazia, già indipendente, ma ancora in guerra. La Mariapoli Faro era gremita di rifugiati provenienti da tutte le regioni dell'antica Yugoslavia. C'era tanta sofferenza e tanta solidarietà.

L'amico Ivan Bregant voleva farmi dipingere. Non ero nella condizione mentale favorevole, e, per via della guerra, mancava il materiale. Ho trovato un vecchio lenzuolo, sporco, strappato e qualche resto di pittura. Ho dipinto.

Un altro amico, Bostian, sorpreso del mio lavoro, pensò che dovesse esistere, da qualche parte, il secondo lenzuolo del paio. Trovato, pulito, stirato, me lo consegnò per un altro capolavoro. Era consumato, bucato, sbrindellato, da buttare. Ero desolato. Come non disilludere Bostian?

 Guardavo con angoscia il relitto che si sfilacciava, e mi venne in mente Gesù Abbandonato. Anche lui era crivellato di ferite, sfinito, consumato, logoro fino alla trama, anche lui si sfilacciava. Consummatum est. Doveva essere possibile dipingere proprio su questa tela così ridotta, perché così sfilacciata e logora fino alla trama, il viso piagato, di chi è al centro di ogni mio pensiero, della mia vita, soggetto che si presenta sempre quando dipingo e quando scrivo.

Coccoloni sul vecchio lino disteso per terra, incominciai a dipingere. Era estenuante perché le poche vernici e il diluente che avevo potuto racimolare nel supermercato, vuotato dalla guerra, non si combinavano rendendo il lavoro quasi impossibile. Sudavo su questo sudario. Il viso in fuoco, le braccia stanche, le gambe indurite da crampi, vera icona del velo della Veronica che dipingevo, incurante del mio sfinimento, mi costrinsi a completare l'opera.

Senza sosta, per ore, dipinsi freneticamente il monumentale viso sanguinante, brutto, di un uomo dei dolori, un uomo fatto a brandelli, la fronte bucata da lunghe spine nere, le guance tumefatte, le spalle lacerate dalla frusta.

Ma sul finire della giornata, con stupore, mi accorsi che per la scelta dei colori che mi era stata imposta dalla penuria la tonalità generale della tela non era di lutto ma di felicità. Senza accorgermene non avevo dipinto l'Abbandonato, ma il Risorto. Due icone opposte unificate. Il Risorto, con le stigmate dell'abbandono.

Finora erano due immagini distinte, dittico contrastante. L’Abbandonato e il Risorto. Avevo dipinto - ed era la prima volta - il Risorto con le stigmate della passione e della morte.

Ero sgomento e felice.

Guardando a lungo quella pittura che avevo fatto con le mie mani, capivo l'esperienza estetica di questo secolo come un approfondimento della comprensione di cos'è realmente la bellezza, e perciò di cosa sia l'arte.

La Bellezza eterna si è fatta uomo in Gesù. Ha vissuto tutte le vicende della vita umana, le più sublimi come le più banali, le più gioiose come le più dolorose, fino all’abbandono, alla morte. Fino alla risurrezione.

A volte nell’arte contemporanea la bellezza è ridotta ad un grido inarticolato, ma così si esprime nel modo più totale. Da a noi il suo Spirito.

Sembra morta, seppellita sotto la pietra del brutto. Ma il terzo giorno la tomba è vuota. Qualcuno ci dice che è risorta e che ci aspetta.

Cammina con noi. Ci parla. Il cuore ci arde in petto. Si fa tardi. La fermiamo a cena, ma gli occhi si aprono nel momento che sparisce. La bellezza risorta non appare mai: sparisce, si nasconde nell'anonimato dell'uomo qualunque, nel banale, nel quotidiano. Il sole tramonta, lasciando posto alla luna, Maria, riflesso della bellezza risorta, sempre presente lì dove la bellezza è sparita, per guidarci a lei.

La bellezza è sulla riva del lago, irriconoscibile. Un occhio puro l'intuisce e ci apre gli occhi. Ci buttiamo nell'acqua, e la bellezza nutre la nostra mente e i nostri sensi, col pane cotto sulla pietra calda.

La bellezza salita con noi sulla montagna è elevato in alto sotto i nostri occhi e una nube la sottrae al nostro sguardo.

E poiché noi stiamo fissando il cielo mentre ella se ne va, ecco due: «Perché state a guardare il cielo? Questa Bellezza, che è stata di tra voi assunta fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l'avete vista andare in cielo».E noi, sulle vie del mondo, ci ricordiamo le sue parole di congedo: Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell'età presente.

Gesù è la bellezza eterna incarnata, bellezza che si nasconde, fino a morire, per poi risorgere. Questo ci dice tanto della bellezza, se è così, se è come credo. Gesù risorto è uno che ha vissuto la morte, e una morte atroce, "brutta". Così la bellezza risorta che è adesso in Dio non è una bellezza facile, non è una bellezza piacevole, non è kitsch, è una bellezza molto provata, fino alla morte. Capisco il problema di Lucifero, così geloso della bellezza di Dio, quando vede la morte della bellezza, il "brutto" - se vogliamo chiamarlo così - assunti da Dio, divinizzati, in Gesù risorto.

Michel Pochet

Il testo:

Via crucis

 

Alessandra Caneva

 

A Rinaldo Piras,

che morendo

ha contemplato la Via Crucis

attraverso queste povere pagine      

 

Non ho avuto dubbi quando il tipografo mi ha chiesto a chi volessi dedicare la Via Crucis che avevo scritto alla fine dell’estate 2002. Rinaldo Piras, un amico di giovinezza, che avevo rincontrato dopo circa vent’anni attratta dalla pubblicità di una sua mostra personale.

Lo avevo chiamato, si era ricordato subito di me, ero andata a vedere le sue sculture ed ero letteralmente rimasta colpita dalla loro bellezza. Degli autentici capolavori ricavati da un particolare marmo che comprava in Egitto, scolpito con una passione sconvolgente.

Avevamo entrambi un passato turbolento. Avevamo militato nel ’77 nelle file dell’estrema sinistra. Ci eravamo battuti contro le ingiustizie sociali. L’idea di una dimensione trascendente della vita, allora non ci aveva sfiorato. E invece, diventammo entrambi degli artisti, nella nostra materia specifica, lui nella pietra, io nella parola, nel tempo, distanti uno all’altra e in forme diverse ci siamo accorti di aver fatto un cammino esistenziale simile.

Dopo solo un mese dal nostro incontro in maggio, Rinaldo ha scoperto di avere un tumore al pancreas. Era spacciato. Ha cominciato a soffrire, io gli sono stata vicina e l’idea di scrivere una Via Crucis mi è venuta seguendolo passo passo nella sua vita dolorosa.

Lui aveva scoperto Dio, ma non lo sapeva. Io avevo scoperto Dio, ma mi sfuggiva il senso profondo del dolore. Lui ha aiutato me, io ho aiutato lui e come un cerchio che si chiude, l’ho visto morire serenamente anche se lasciava due figli, una moglie meravigliosa, Elena, e una carriera artistica che stava decollando alla grande. Lasciava molto, ma affermava di aver trovato quel “Padre” che la vita gli aveva negato.

Ha provato a disegnare le 14 stazioni, ci teneva tanto, ma è riuscito solo a terminare la prima.

 

Il testo è semplice. Pur ripercorrendo la Via Crucis canonica con le 14 stazioni, non ha affatto un carattere devozionale. Non è cruenta, ma incentrata sul dolore interiore, tutto spirituale del Cristo. Perché in fondo, anche noi, quando soffriamo, ciò che è più duro non è tanto la sofferenza fisica, quanto quel sentirci abbandonati, abbandonati da Dio…

La struttura del testo ha un preciso punto di vista: quello di una presenza angelica, scesa in terra a consolare Gesù nell’orto degli Ulivi e che segue la passione passo per passo.

È un angelo e, se non capisce la violenza degli uomini, tanto più è sgomento di fronte all’idea della morte dell’uomo Dio. L’angelo scruta i sentimenti interiori del condannato a morte, la sua pietà per il genere umano e spazia pensando al futuro, a quando “molti uomini di domani si dimenticheranno del sangue che oggi lascerà una scia luminosa tra le scabre pietre di Galilea”.

 

“Il cielo mi ha mandato

per sostenerti come si sostiene un uomo

ma io so che non riprenderai la tua gloria

di figlio di Dio.

Il tuo silenzio è quello della morte

Ma che cos’è la morte di Dio?”

 

Da questa domanda dell’angelo parte il racconto della Passione.   

Alessandra Caneva

 

 

 

 

La musica:

 

Franz Liszt, Via Crucis S. 504a

 

La figura di Franz Liszt viene spesso, a torto, associata a quella del grande virtuoso, protagonista degli eventi mondani della sua epoca trascurando invece la sua opera come intellettuale e divulgatore dell’arte. Anche del suo vastissimo repertorio pianistico, ancora oggi molte opere sono sconosciute al grande pubblico. Tutta la produzione musicale del compositore ungherese è sempre stata influenzata, fin dalle sue prime composizioni, da elementi sacri; che probabilmente preludevano a quel misticismo, non solo musicale che caratterizzerà soprattutto le sue ultime composizioni. Possiamo ricordare, su tutte, la celebre raccolta di brani pianistici intitolata: “Armonie poetiche e religiose”. Ma chiaramente, sono molte le sue composizioni ricche di suggestioni religiose; e questo aspetto della sua personalità, nonché della sua produzione artistica,lo rende una figura unica nel panorama del romanticismo europeo.

Secondo Renato di Benedetto, la morte del figlio Daniel, appena ventenne, avvenuta nel 1860 riaccese in Liszt quelle tendenze religiose che già una volta, durante una crisi negli anni giovanili, lo avevano portato ad un passo dalla decisione di vestire l’abito talare. Lasciata Weimar nel 1861, si rifugiò a Roma, dove nel 1863 entrò nell’Oratorio della Madonna del Rosario a Monte Mario, dove ricevette due anni più tardi gli ordini minori. Da questo momento il filone delle sue composizioni corali e sinfonico – corali di ispirazione religiosa si aggiunse al già ricco catalogo di composizioni pianistiche e sinfoniche.

Vogliamo ricordare fra queste composizioni la Messa di Gran (1855) risalente ancora agli anni di Weimar e scritta per la consacrazione della basilica dell’omonima città ungherese; nello stesso periodo inizia la stesura dei due grandi oratori: Die Legende der heiligen Elisabeth, e  Christus; terminati rispettivamente nel 1862 e nel 1867.

Questi insieme alla Hungarische Kronungsmesse (messa ungherese dell’incoronazione), eseguita a Budapest durante la cerimonia d’incoronazione di Francesco Giuseppe come re d’Ungheria nel 1867, sono i titoli più monumentali d’un’ abbondantissima produzione di opere liturgiche ed extraliturgiche – per lo più corali, con un sobrio accompagnamento strumentale o con solo organo – che si sviluppa fino agli ultimi anni della sua vita.

In esse convivono, o talvolta si alternano, la variopinta ricchezza del nuovo linguaggio sinfonico e l’arcaicizzante “purezza” della restaurata polifonia vocale; il ripristino della scrittura contrappuntistica nel suo classico assetto delle quattro voci; che però non gli impedisce nelle opere più tarde la pratica di un audacissimo sperimentalismo armonico, che si spinge assai oltre le frontiere della tonalità.

 

 

Liszt compose la sua “Via Crucis” fra il 1878 e il 1879 a Roma, completandola a Budapest. Per questo lavoro scritto per il coro, soli e organo oppure pianoforte, Liszt scrisse la seguente introduzione in francese:

 

La devozione delle stazioni della croce, chiamata Via Crucis, è diventata – in seguito alle affermazioni  e ai numerosi consensi dei Pontefici – un servizio per le anime dei defunti così come un’osservanza religiosa che si diffuse in molti paesi e divenne persino popolare in alcuni di essi. In alcune Chiese noi possiamo trovare dipinti che mostrano le Stazioni della Croce, e i membri delle congregazioni recitavano le loro preghiere prima di ognuno dei dipinti appesi al muro. Qualche volta queste preghiere erano recitate da singole persone, altre volte da piccoli gruppi ed in quest’ultimo caso le parole delle preghiere erano divise tra di loro.in alcune congregazioni il Curato stabiliva la data e il tempo di ogni servizio ed egli stesso guidava la Via Crucis. Un organo non può essere usato nel primo caso menzionato, e similarmente quando le Stazioni della Croce sono rappresentate fuori dalla porta, come per esempio a S. Pietro in Montorio, a Roma.

È facile comprendere che la  più solenne e più toccante devozione avveniva il Venerdì Santo al Colosseo, proprio nel luogo in cui i martiri avevano versato il loro sangue.

Forse qualche volta i quadri non erano del tutto soddisfacenti e così in seguito potrebbero essere stati sostituiti con opere d’arte create da Galli, lo scultore, e inoltre  un grande harmonium potrebbe essere portato lì così che il suo suono possa supportare il canto.

Io sarei felice in ogni caso, se un  giorno la mia musica potesse essere suonata lì, anche se sarebbe insufficiente  ad esprimere la profondissima emozione che mi sopraffece quando, una volta lì, in quella processione, mi inginocchiai e ripetei alcune volte queste parole: O! Crux Ave! Spes unica!”

                                                                                                              Franz Liszt

 

 

Considerando le indicazioni al testo musicale, Liszt ha in mente due tipi di rappresentazioni possibili: secondo la prima la Via crucis doveva essere eseguita dal coro, dai soli, e dall’organo o dal pianoforte; la seconda concezione prevedeva invece l’esecuzione senza le parti vocali ma soltanto con l’organo o eventualmente con il pianoforte.       

 

 

 

Interpreti:

 

Emiliano Giannetti, ha studiato pianoforte con Orazio Maione per poi diplomarsi con Stefano Cucci presso il Conservatorio “S. Cecilia” di Roma. Laureato con lode in Storia, Scienza e Tecnica della Musica e dello Spettacolo all’Università degli Studi “Tor Vergata” di Roma con una tesi sul pianista e didatta Bruno Mugellini. Ha seguito numerosi corsi di perfezionamento pianistico con docenti di chiara fama, interessandosi poi anche al repertorio per fortepiano ed alla direzione d’orchestra. Ha frequentato la Scuola Sperimentale di Composizione nella classe del di Gian Paolo Chiti. Premiato in diversi Concorsi Pianistici sia come solista che in duo pianistico, svolge attività concertistica come solista, in duo pianistico ed in altre formazioni cameristiche. L’interesse per la musica del900 lo ha portato ad eseguire e registrare pezzi in prima esecuzione assoluta nell’ambito di rassegne dedicate alla musica contemporanea. Sue composizioni sono state eseguite in Italia e all’estero. Ha pubblicato presso la casa editrice Eurarte alcune composizioni pianistiche. Di imminente pubblicazione un CD con sue composizione per l’etichetta RARA in collaborazione con RAITRADE.

 

Ileana de Gregorio, attrice, inizia la sua formazione artistica nel 1996 frequentando il corso di interpretazione scenica diretto da Carlo Merlo presso Clesis Arte di Roma. Successivamente segue il corso di dizione tenuto da Gianfranco Migliorelli. Nel 1998 partecipa al “training intensivo di recitazione” diretto da Giuseppe Argirò, nello stesso anno partecipa al “Convegno sul Verso” tenuto da Carmelo Bene presso il Teatro Valle di Roma. Nel 1999 approfondisce il “Metodo Strasberg” con Viviana di Bert. Si diploma brillantemente nello stesso anno presso l’Accademia d’Arte Drammatica “P. Scharoff” di Roma (Metodo Stanislasky-Grotosky). Recita in numerosi allestimenti teatrali e cortometraggi, esibendosi in importanti sale romane (Teatro Euclide, Anfitrione, Colosseo e dell’Orologio) ed italiane, collabora inoltre alla regia di diversi allestimenti (“Il contrabbasso” di Suskind presso il Teatro Tordinona nel 1996) sia teatrali che cinematografici. Ha curato diversi corsi di recitazione e laboratori teatrali, dirigendone le rappresentazioni finali.