LA RELAZIONE NELL’EDUCAZIONE E NELL’ARTE

di Giuseppe Milan

 

L’incontro con la bellezza è sempre l’incontro con qualcosa di misterioso, che ci introduce a percorsi nei quali siamo indotti ad aprirci al nuovo, ad indagare in profondità, a farci delle domande e a cercare risposte. Come il mistero, la bellezza è provocante, non è mai facile e sollecita sempre ad una ricerca, ad entrare con lo stupore dei bambini all’interno di spazi magici. L’abbiamo appena fatto, lungo l’itinerario delle scatole artistiche create da Caridad: in quel percorso, in quei mondi, c’era qualcosa di misterioso e di strano, che non era già "spiegato", non aveva già l’evidenza delle cose scontate e, perciò, ci ha spinti a guardarci in faccia, a scoprirci dentro, ad incontrarci con noi stessi e con gli altri. La bellezza è sempre un’esperienza emozionante e sconvolgente. E’ una sfida, ci cambia, specialmente quando viene scoperta e vissuta insieme, in una dimensione dialogale.

In questo periodo alcuni di noi, impegnati nell’ambito dell’educazione, abbiamo avuto esperienze di incontro e di collaborazione con artisti, e questo ci ha sollecitati a considerare alcune tematiche pedagogiche in un proficuo dialogo con quanto avviene nell’arte (molte suggestioni al riguardo ci sono giunte dal Congresso di Castelgandolfo sull'Arte, al quale alcuni di noi abbiamo partecipato).

La crisi di immaginazione e "cosificazione" della realtà umana

Il tema di oggi ci sembra attuale e importante anche perché una sensazione comune è che da molte parti, nel nostro contesto culturale, sia presente una crisi profonda: una crisi di immaginazione, di creatività, di fantasia: potremmo definirla una "crisi di arte", presente anche nel mondo dell’educazione.

C’è, insomma, una sensazione diffusa, un "senso comune" che traspare dalle testimonianze e dalle impressioni di educatori, di insegnanti, di operatori che agiscono nella scuola e nell’extrascuola, a vari livelli: c’è un imperversare di contenuti, di cose da trasmettere, di programmi da svolgere, di cambiamenti strutturali e istituzionali in atto nella scuola, e non solo, ma c’è anche – nel contempo – una constatazione di sterilità, una frequente percezione di fallimento: tante volte si lavora senza una reale efficacia dal punto di vista educativo, pur se tutto è organizzato da un efficientismo imperante - che però assomiglia più ad uno pseudo-efficientismo di facciata che ad una sostanziale fecondità pedagogica -. Lo confermano molti insegnanti. I genitori, d’altra parte, spesso sembrano non sapersi sottrarre a questa enfatizzazione, all’onnipotenza della "quantità", per cui chiedono (a se stessi e agli altri): "che cosa ha preso mio figlio?", "cosa ha fatto mio figlio?", oppure "quante attività svolge mio figlio?". E a volte si accontentano quando la risposta è: "tanto", "ha preso tanto" oppure "ha fatto tanto". In realtà, anche i genitori sanno tante cose, di psicologia dell’età evolutiva, di pedagogia, di morale e così via, ma spesso si sentono in vera difficoltà come educatori; sono anch’essi – per certi versi – in crisi di immaginazione.

La "scuola parallela", la tv, i mass media, internet, gli slogan pubblicitari, tutto questo riversa una quantità enorme di nozioni, di informazioni, crea sempre nuovi bisogni, spesso superflui, di fronte ai quali siamo spesso passivamente inermi e accondiscendenti.

Non vorrei sembrare pessimista, ma a volte, senza rendercene conto, viviamo quasi schiacciati dal peso immane della cosalità, che è mercato, consumismo di "cose" che sono beni "materiali", ad esempio giocattoli. Pensiamo alla festa del consumismo che è il natale che stiamo per vivere. Pensiamo anche al mercato di informazioni, di notizie: alla tv (24 ore al giorno di bombardamento di informazioni). E’ spesso un mercato di "sapere", anch’esso tante volte "di quantità": pensiamo al "peso" degli zaini dei bambini che vanno a scuola: è una quantità di sapere che viene trasmesso, di cui essi vengono caricati. E’ inoltre un mercato di immagini, mass-mediali, pubblicitarie, che molto spesso ricalcano modelli stereotipati e servono come esche per farci comprare; ormai non ci rendiamo conto di stare in un mondo che è fatto di immagini: fa parte di noi stessi, fa parte del nostro vivere. E’ anche un mercato, quello in cui ci troviamo, di tecnologie, di informatizzazione del sapere, di informatizzazione della scuola, la "cellularizzazione" della comunicazione.

Tutto questo, in realtà, potrebbe essere positivo - dato che molti strumenti possono veramente aiutarci a vivere più pienamente la nostra umanità - entro certi limiti, però, perché può portarci al rischio di arrivare a una massima perfezione tecnica, ma anche all’assenza di genialità, all’assenza di anima, all’assenza di immaginazione. Già nel 1982 la rivista americana Time aveva eletto "Uomo dell’anno" il computer: non sembra tanto una trovata pubblicitaria, quanto un modo di intendere la vita, una filosofia: arrivare ad assegnare ad uno strumento - il cellulare, il computer, Internet… - comunque ad una "cosa", per quanto tecnologicamente perfetta, il modello di umanità, e dire che l’ "Uomo perfetto" è questa "cosa". Sembra che umanizzarci significhi cosificarci, reificarci, alienarci in questo mondo della materialità, del "ciò": il "ciò" che si può vedere, avere, possedere quantificare, pesare, toccare.

In realtà questa distorsione grave, questo inquietante capovolgimento della nostra realtà esistenziale sembra contaminare sempre di più la nostra cultura, la nostra società, tutta la nostra comunicazione umana. Gli studiosi della comunicazione, in particolare della "pragmatica della comunicazione umana", dicono che la comunicazione umana presenta sempre due aspetti contemporaneamente, come due facce di una stessa medaglia: c’è l’aspetto del "contenuto", il "ciò" di cui parliamo, il sapere, l’informazione, e c’è, nello stesso tempo, l’aspetto della "relazione", del rapporto che si vive nella comunicazione stessa. L’onnipotenza del contenuto, l’enfatizzazione del "ciò", di cui siamo testimoni e vittime, va molto spesso a scapito della relazione, oscura e talvolta annulla il senso dei rapporti umani che sono imprescindibili ed essenziali per la qualità della vita e per la salute psicologica dei soggetti che partecipano alla comunicazione stessa.

Vicktor Frankl, il noto psichiatra viennese fondatore della logoterapia, ebbe come oggetto della sua "cura" la frustrazione esistenziale dei giovani, le crescenti esperienze di condotte suicidarie o simili, soprattutto nelle nazioni ricche; ad un certo punto egli lanciò una denuncia: "Essi (i giovani) hanno tutto, ma non hanno l’essenziale": non ci stanno ad essere un nient’altro che, una cosa, come spesso la nostra società chiede di essere, vogliono qualcosa in più, però la società non sembra in grado di dare risposte pertinenti.

Ecco allora il paradosso abbastanza frequente per l’uomo d’oggi: avere allargato a livello planetario gli spazi dei suoi possessi, del suo territorio, del suo villaggio, che è ormai "villaggio globale", essere quindi a tutti gli effetti "cittadino del mondo", ma dimostrarsi di fatto incapace di essere "cittadino di se stesso", di avere una dimora esistenziale rassicurante, profonda. Quando l’uomo è "senza casa", diceva Pascal, questo è il suo più grande dramma. Questa "strettezza" in realtà sembra essere oggi la malattia più diffusa: l’ "angoscia" (deriva dal latino "angustia", che vuol dire "strettezza") è il malessere che tanti si portano dietro. E’ troppo grande il mondo delle cose, delle costruzioni, della materialità anche del sapere. E’ troppo grande questo mercato che ci pesa addosso, questa "cosificazione" che soffoca le aspirazioni e le dimore della vera identità: ne siamo schiacciati e viviamo spesso l’angoscia del non ritrovarci.

Nietzsche, nel suo Così parlò Zarathustra, lancia metaforicamente una denuncia: "Egli (Zarathustra) voleva venire a sapere che cosa fosse avvenuto nel frattempo dell’uomo: se fosse diventato più grande o più piccolo. E una volta, al vedere una fila di case nuove, disse pieno di meraviglia: Che mai significano queste case? In verità, non fu certamente un’anima grande a erigerle a sua immagine e somiglianza! Un bimbo scemo le ha tirate fuori da scatole dei suoi balocchi? Magari un altro bimbo le rimettesse dentro la sua scatola! E queste camere e stanzette: possono uomini entrarne ed uscirne?… E Zarathustra si fermò meditabondo. E infine disse, turbato:' Tutto è diventato più piccolo!'".

Questo interrogativo-denuncia di Nietzsche è di attualità: esiste oggi più che mai il pericolo di ridurre, di restringere l’essere umano, di annientarlo (renderlo "niente"). Abitiamo un mondo, un’installazione, dove tutto è diventato più piccolo: l’uomo, invece di crescere, si è autolimitato e si ritrova nell’ angoscia. Chiudiamo spesso il nostro cielo; i nostri desideri – lo sappiamo – sono "terra terra" , ma tradiamo così l’autentico significato di "desiderio" che – dal latino de-sidera – allude a qualcosa che proviene "dalle stelle".

In una recente ricerca all’Università sul disagio giovanile, che ho condotto con altri, è stato messo in evidenza che, soprattutto nel mondo dei giovani, c’è una progressiva attenuazione delle utopie, c’è un appiattimento dei desideri, c’è un’omologazione all’interno di un modus vivendi che troppo facilmente si adegua al qui e ora, a quello che c’è, al presente. Questa presentificazione si accontenta dell’oggi, della società odierna, e chiude gli spazi ad una speranza e anche ad una contestazione nei riguardi dell’oggi e del domani, diventa facilmente conformismo, appiattimento. C’è insomma – ed è strano che capiti nell’età giovanile – una sempre più diffusa paralisi progettuale che si accompagna (ecco il problema di fondo) ad un’atrofia dell’immaginazione. Si tratta di uno stravolgimento, di un’alterazione evidente rispetto a quello che dovrebbe essere il nostro progetto umano. Ne derivano una serie di frustrazioni esistenziali che poi facilmente si scaricano in forme di aggressività, a volte verso l’esterno (gli altri, il mondo), a volte verso l’interno (se stessi).

Questo restringimento di orizzonti parte evidentemente da lontano: l’infanzia è spesso depauperata della sua stessa natura, che è spontaneità, fantasia, immaginazione, gioco.

Bambini senza infanzia

Da molti anni ormai, studiosi particolarmente attenti al mondo infantile denunciano tale situazione, tant’è vero che ci sono dei best-sellers sulla problematica del disagio infantile. Ricordo, per esempio, La scomparsa dell’infanzia di Neil Postman, americano, e, in particolare, Bambini senza infanzia di Mary Winn, che scrive: "La scomparsa del gioco infantile è il più drammatico di tutti i cambiamenti che hanno alterato la topografia dell’infanzia"; e, in vario modo, lei collega questa realtà alla violenza dilagante e anche alla sempre più diffusa depressione infantile; anche nel nostro contesto italiano ci sono ricerche recenti che rilevano la crescente presenza di questo problema psichiatrico, che un tempo non intaccava l’infanzia in modo così preoccupante.

C’è una scomparsa del gioco che equivale a scomparsa dell’infanzia. Sembra un paradosso, perché i bambini di oggi sono ricolmi di giocattoli; ma si tratta in realtà di giocattoli che contraddicono la natura vera del gioco: "belli e fatti", costruiti dall’adulto e spesso per l’adulto, etero-diretti (perché il bambino deve eseguire qualcosa che è già stato programmato da altri), sono così tanti che il bambino li usa e getta, quindi spesso non ha la possibilità di un rapporto con essi. A volte sono giochi costosi, a tempo e a pagamento, che costringono il bambino a procurarsi somme di denaro per accedervi. E’ evidente che questi giocattoli sono falsi bisogni, anch’essi sollecitati dal consumismo dilagante. Il bambino è lui stesso vittima impotente di questo mercato: anche per lui consumare-comprare diventa uno stile di vita fin dall’infanzia, diventa paradossalmente il più bel gioco.

I giochi odierni sono caratterizzati da una fortissima stimolazione esterna, eccitano dall’esterno i bambini, gli adolescenti (ma anche gli adulti, perché molti adulti ne fanno uso): mandano su di giri, per così dire, con le loro azioni, i loro ritmi, le loro musiche convulse e frastornanti. Agiscono perciò come una sostanza stimolante che si assume dall’esterno e crea dall’esterno, artificialmente, una forma di evasione. Invece i giochi tradizionali, all’aperto (ce ne ricordiamo forse tanti), giochi simbolici, giochi di finzione (il far finta di essere qualcuno, impostare con altri avventure meravigliose, misteriose, entrando nella "scatola magica" che è il gioco), ecco, questi giochi avevano una stimolazione interna forte (e uno stimolo esterno scarso) perché valevano la spinta interiore del bambino, la sua immaginazione, la sua eccitazione naturale, controllata dal bambino stesso e non prodotta artificialmente dal di fuori. Molte delle odierne evasioni artificiali, molti dei giochi estremi, paradossali, soprattutto degli adolescenti e dei giovani, che sono vere e proprie sfide a se stessi e agli altri, sfide che pongono spesso in un rapporto innaturale con la morte, hanno come protagonisti giovani che da bambini non hanno giocato "naturalmente", che hanno giocato in modo anomalo (lo dice tra l’altro Andreoli, ma lo confermano anche altri psichiatri). Anche la diffusa apatia, la passività, la noia, la frustrazione spesso sono frutto di un’assenza di gioco, di creatività e di immaginazione autentica. Un bimbo senza gioco diventa facilmente un adulto senza gioia.

Fortunatamente c’è qualcuno che, anche sollecitato da esperienze esterne, si rende conto di questa anomalia nella vita dei bambini e nostra. Mi riferisco, ad esempio, a uno studioso danese, Sorenson, noto progettista di parchi, ludoteche e spazi attrezzati per l’infanzia. Alla festa di inaugurazione di un parco-giochi bellissimo, da lui progettato, per il quale erano stati spesi moltissimi soldi, con la presenza delle autorità, delle televisioni, i moltissimi bambini invitati presenti, una volta lasciati liberi di dirigersi dove volevano, si sono orientati in un angolo abbandonato del parco, dove erano rimasti dei detriti che gli operai non erano riusciti a ripulire totalmente: hanno buttato all’aria il programma ufficiale, che li voleva impegnati negli spazi strutturati, e si sono buttati a giocare proprio lì, dove non c’era nulla di predisposto artificialmente, c’era soltanto – ma questo importava ai bambini! - la possibilità di creare dal nulla. Sorenson, a partire da questa esperienza ha capovolto la sua teoria (ha fatto finalmente qualcosa di creativo!) e ha detto: non serve più quello che abbiamo fatto finora, è invece necessario dar vita a luoghi di ricreazione, di avventura, aperti ai bambini, con materiale povero: lì i bambini giocano più volentieri, lì liberano più facilmente la loro immaginazione, quella creatività che, in realtà, prorompe dappertutto quando noi li lasciamo agire con la spontaneità e la libertà che competono loro.

Quanto detto sull’infanzia e sul gioco è comunque una conferma del precedente assunto, che oggi viviamo in un’enfatizzazione del mondo esteriore, il quale occupa e atrofizza sempre più gli spazi dell’interiorità, gli spazi dell’immaginazione. Bisogna quindi essere attenti a questo, anche se va fatta una precisazione: non dobbiamo certo demonizzare tutti questi molteplici mezzi che possono esserci utili, però non dobbiamo dimenticare che sono mezzi a fine e che il fine è la nostra umanizzazione. Tante volte, tuttavia, c’è un capovolgimento vizioso: invece di promuovere l’umanità promuoviamo questi mezzi e li trasformiamo in idoli. Allora dovremmo sempre porci la più antica domanda che è stata posta all’essere umano (la troviamo nella Genesi): "Dove sei, Adamo? Dove sei uomo? Dove ti sei nascosto?". Esistiamo ancora, ci siamo? E dovremmo, forse, come Diogene, andare con la lanterna in cerca dell’uomo e tentare di scoprirlo oggi.

La funzione contestativa e propositiva degli artisti

Ritengo che gli Artisti e gli Educatori dovrebbero essere in prima fila in questa fase contestativa e di denuncia dell’esistente, su cui ho finora insistito, ma anche nella fase di proposta, nella fase costruttiva. In realtà, ci sono infiniti esempi di Artisti che con la spietatezza della loro denuncia, con la forza dei loro sogni, hanno saputo e sanno proporre questo sguardo critico e profetico che contiene comunque, implicitamente a volte, la proposta di un riscatto, di un risveglio per l’uomo e per l’umanità.

Penso, ad esempio, a Italo Calvino, alla crudezza della sua analisi e alla violenza della sua proposta espressa nelle poche righe che ora vi leggo. Parla di noi, del nostro mondo, della nostra città, proprio nel libro "Le città invisibili"(Einaudi,1972, p.170): "L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio".

E ho trovato una poesia di Edgar Lee Masters, nell’"Antologia di Spoon River"(p.69), in cui fa dire a Griffi il bottaio, con ironia verso quelli che presumono di sapere tutto e si gloriano della loro "quantità" di sapere: "Credete di conoscere la vita, credete che i vostri occhi spazino su un largo orizzonte, forse, in realtà state solo guardando le pareti della tinozza… Siete sommersi nella vostra tinozza".

Nel suo film Il Cielo sopra Berlino, il regista Wim Wenders mostra un mondo popolato di angeli che seguono le vicende dei singoli; ma soltanto i bambini - con la loro purezza e la loro immaginazione - sanno vederli. Il film inizia con una frase, "Quando i bambini erano bambini…", che si ripete più volte e che ci ricorda il libro Bambini senza infanzia, prima citato.

Negli artisti che ho nominato (ma ce ne sono tantissimi altri, naturalmente) c’è la denuncia esplicita della realtà, ma c’è anche una chiara proposta: ci invitano ad aprire gli occhi ad una realtà più profonda, a scoprire quell’approccio poetico e artistico - all’esistenza e alla vita - che spesso ci viene a mancare: un approccio che racchiude profondissime valenze pedagogiche perché può permettere all’uomo di oggi, a tutti i livelli, di riscoprire la propria umanità.

 

Funzione educativa dell’arte

L’arte infatti nasce dal rapporto dell’uomo col proprio mondo interiore (con la propria spiritualità, con la propria vita) e con la realtà esterna, con la quale l’artista si mette in relazione non per subirla, ma per reinterpretarla, per illuminarla.

Ecco l’immaginazione, per dar vita alla realtà, per darle luce, per darle significato, per soffiare in essa lo spirito creativo, e per costruire - tramite questo rapporto - qualcosa di nuovo, di inusitato, di artistico e geniale, che nasce proprio dalla relazione Io-Tu con l’altro da sé che è il mondo, è la materia, è l’opera d’arte: tutto ciò che si relaziona con la spiritualità del soggetto.

Incontrare l’arte esige dall’individuo il trascendimento di sé, l’uscire dalla propria ristrettezza, dalla propria angoscia, dai propri confini, dalle proprie abitudini. Tale dilatazione dell’io, che è fondamento della vera educazione (ampliarsi, crescere, promuoversi), affina il rapporto tra il mondo interno e il mondo esterno, mettendo in funzione la "comprensione", la partecipazione empatica all’altro da sé, all’altra forma, all’altra esperienza all’altro pensiero, all’altro sentimento. L’arte, insomma, non solo aiuta ad affinare e a formare una sensibilità estetica, il gusto per il bello (…e sarebbe già tanto!), ma contribuisce in realtà alla formazione generale dell’essere umano, proprio per questa dilatazione globale che influisce su tutti i piani della vita (intellettiva, affettiva, sociale, morale, religiosa…). E’ quindi importante, in prospettiva pedagogica, educare con l’arte ed educare all’arte, attraverso la produzione artistica diretta (momento espressivo-creativo) - per la quale è di grande importanza la presenza di un contesto stimolante, con esempi che sappiano "creare arte" - e attraverso la partecipazione-conoscenza-comprensione di opere d’arte (momento fruitivo-critico). I due momenti (espressivo-creativo e fruitivo-critico) favoriscono l’espressione dell’io, la formazione di uno spirito aperto.

Arte e relazione interpersonale

L’arte, in ultima analisi, può favorire l’acquisizione, lo sviluppo e il potenziamento di quell’immaginazione, di quell’attitudine poetica di cui prima denunciavo la povertà diffusa. Ma sono pure convinto che l’esperienza artistica abbia una forte valenza educativa se contribuisce, nel contempo, ad arricchire la dimensione relazionale dell’essere umano, il suo essere relazione, incontro, dialogo.

Abbiamo visto che proprio la relazione viene spesso attenuata gravemente, o azzerata, sotto il peso dell’avere, del possedere, del sapere.

L’immaginazione è importantissima, ma non basta a soddisfare la nostra sete di umanità se non si muove all’interno, o nella direzione, di un’autentica relazionalità interpersonale e sociale.

Penso ad un aneddoto, presente nel Wojzech di G. Buckner (1813-1837), scrittore di teatro morto a 24 anni: "C’era una volta un povero bambino che non aveva papà e non aveva mamma, erano morti tutti e non c’era più nessuno al mondo. Tutti morti, allora lui è partito e ha cercato giorno e notte e siccome sulla terra non c’era più nessuno, ha voluto andare in cielo. C’era la luna che lo guardava così buona e quando finalmente era arrivato alla luna, quella era un pezzo di legno marcio. Allora è andato dal sole e quando era arrivato al sole quello era un girasole appassito, e quando arrivò alle stelle erano dei moschini d’oro, e lui voleva ritornare sulla terra, ma anche la terra era una pentola capovolta e lui era solo. E allora si è seduto e si è messo a piangere ed è ancora là seduto solo, solo".

Il bambino di Buckner non è certo carente di immaginazione; quest’immaginazione lo porta a spaziare dalla terra al cielo, a cercare qualcosa, però è un vagare senza risposte, senza relazione, senza incontro: resta il dramma di un’immaginazione che non gli permette di trascendere la sua permanenza in uno stato di solitudine.

Quanto detto si presta ad interpretare le possibili conseguenze provocate dalla riduzione della naturale tensione immaginativa nella delicata età dell’adolescenza; questo può favorire l’acutizzarsi della concentrazione del ragazzo su se stesso e l’egocentrica sensazione di "essere al centro", non solo del proprio pensarsi ma anche dell’attenzione altrui: sulla spinta di un’ immaginazione distorta – che svolge una funzione vicaria – egli può porsi come unico e speciale protagonista di una rappresentazione di fronte ad un pubblico immaginario, pienamente interessato alle sue vicende esistenziali, e ad una realtà obbediente alla sua presunzione di onnipotenza. Il ragazzo, in tal modo, elabora una propria "favola personale" che, sostenuta dall’illusione di invulnerabilità, può condurlo ad assumere comportamenti a rischio, anche estremi, e a sperimentare ripetutamente, dopo momenti di irreale esaltazione, il senso del fallimento: si sedimenta perciò facilmente un circolo vizioso illusione di invulnerabilità – comportamenti rischiosi – disillusione, che accentua il senso di frustrazione esistenziale e non di rado – ribaltando l’iniziale presunzione di onnipotenza – favorisce cadute in stati depressivi. Tale dinamica si verifica, non di rado, anche nell’esperienza artistica, quando, condotta in un chiuso solipsismo egocentrico, inibisce la dimensione relazionale –interpersonale e sociale – propria della persona.

Analogie tra approccio artistico e approccio educativo

A questo punto, andando un po’ più in profondità, vorrei tentare un accostamento tra l’artista e l’educatore evidenziando alcune analogie tra la relazione dell'artista con l’opera d’arte e quella dell’educatore con il soggetto educativo. Innanzi tutto c’è un elemento di carattere generale che rende analoghe le due relazioni: l’irripetibilità che dovrebbe caratterizzare la "formazione" nell’arte e la "formazione" dell’essere umano nell’educazione. L’abilità, il compito precipuo dell’artista, sta proprio nel "dare forma" alla sua opera rendendola unica, originale e nuova. L’opera d’arte è il frutto, quel "di più", che nasce dalla relazione tra la "substantia humana" e la "substantia rerum", tra la genialità dell’artista e la realtà esterna a lui: è il "tra" materializzato, il segno visibile-udibile di una creatività che emerge dall'incontro dell'uomo-artista con il suo mondo, con la natura.

Nell’educazione, allo stesso modo, siamo chiamati ad essere artisti, non artigiani (con tutto il rispetto per l’artigianato), perché non dobbiamo fare formazione in base a forme o a modelli precostituiti, ma riconoscendo e valorizzando (cosa difficilissima) l’unicità, l’irripetibilità, la novità, quel pizzico di inedito che c’è in ciascuno, aiutando ciascuno a moltiplicare i suoi talenti e a diventare quel singolo originale che soltanto lui può e deve diventare.

Come abbiamo visto, il conformismo, l’omologazione, la riduzione a stereotipi mass-mediali sono caratteristiche del nostro contesto socioculturale e del nostro modo di educare; gli artisti ci possono aiutare, possono "soccorrere" il nostro mondo pedagogico, tante volte povero di poesia, grigio, pesante, difficile; e lo possono fare mettendo in atto nella relazione artistica quegli stessi atteggiamenti che noi educatori possiamo vivere nella relazione educativa.

Chiediamoci, allora, quali siano i principali atteggiamenti comuni, e facciamone un sintetico resoconto.

Gli atteggiamenti che "formano"

Un atteggiamento fondamentale è l’accettazione del Tu. "Accettazione" deriva da accipio, accipere, che vuol dire prendere con sé, contenere: contenere l’altro e prenderlo con sé nella sua diversità. E' un atteggiamento necessario, imprescindibile per l’educatore; pensiamo all’artista che accoglie, che contiene, che "concepisce" (la stessa derivazione di accipere) l’opera nella sua unicità; pensiamo anche all’esecutore che deve abbracciare, che deve cogliere l’originalità di quello che è stato detto-composto da un altro e saperlo donare nella sua purezza. E’ accettazione di qualcosa di nuovo. L’incontro con l’arte, nella diversità e nell' unicità delle opere artistiche, ci fa prendere coscienza della dimensione dell’alterità, dell’altro che è diverso, sempre nuovo: ci fa vedere la realtà nel suo essere un insieme di individui, ciascuno con la propria originalità, con la propria dignità. L’incontro con l’arte, insomma, sollecita la disposizione naturale ed interiore all’incontro con l’altro da accettare.

Altro atteggiamento importante è l’empatia, la capacità di mettersi al posto dell’altro, di condividere il suo mondo pur restando se stessi. Empatia è "intuizione" ("andare al tu"), e l’intuizione è caratteristica evidente del vero artista che sa cogliere, "comprendere" (prendere con sé), la forma, la parola, il suono, che a volte sono impliciti, latenti, non manifesti nella realtà: l'artista sa farli emergere.

Borges scrive in Muraglia e i libri (in Tutte le opere, 1984, pp. 909-910): "La musica, gli stati di felicità, la mitologia, i volti scolpiti nel tempo, certi crepuscoli e certi luoghi, vogliono dirci qualcosa, o qualcosa dissero che non avremmo dovuto perdere, o stanno per dire qualcosa; quest’immanenza di una rivelazione, che non si produce, è, forse, il fatto estetico".

…La presenza di una rivelazione, di una parola che ha il diritto di essere manifestata e che dovremmo saper cogliere ed esplicitare: ecco la genesi dell’arte.

Anche l’educatore ha il compito di fare emergere, di avere questa comprensione dall’interno, questa immaginazione, questa "fantasia reale" (come la definisce Martin Buber): mettersi al posto dell’altro, mettersi "dall’altra parte" ed immaginare il tu, immaginare l’utopia del tu, ciò che l’altro ancora non è ma può diventare, come avviene per l’opera d’arte in procinto d’essere prodotta.

Si verifica allora nell’educazione, come nell’arte, una vera e propria "lotta". Ecco un altro atteggiamento necessario: la lotta dell’artista con la sua opera, la lotta dell’educatore, perché non è facile far uscire la forma, l’opera che si è intravista. Nell’arte c’è una resistenza della materia, nella materia e nel mondo, a donarsi; ed è una delicata e difficile relazione quella che si propone di vincere tale ritrosia: è implicato un duro esercizio, è richiesta la conoscenza di sé, degli strumenti, delle risorse. Tale difficoltà a donarsi, a farsi plasmare, provoca una lotta dall’esito sempre incerto, che richiede pazienza, coraggio, che è rischiosa e a volte fa soffrire.

Anche nell’educazione c’è la resistenza del tu a diventare ciò che può e deve diventare; a volte c’è una negativa resistenza perché c’è passività, c’è conformismo, c’è adesione acritica a modelli stereotipati: allora l’educazione è, e deve essere, attraverso la interpersonale autentica, una lotta calda, una lotta che lascia dei segni, delle ferite, come accadde a Giacobbe quando lottò con un Angelo (Dio) in quella lotta biblica: lì egli ricevette da Dio – che si lasciò vincere - il nome per il suo popolo (Israele) ma anche la ferita che lo fece zoppicare per il resto dei suoi giorni. Anche la lotta dell’educazione lascia dei "segni". "Insegnare" vuol dire proprio questo: "lasciare dei segni". La lotta educativa, cito Martin Buber è lotta con (con il soggetto educativo, perché la si fa insieme, non può che essere reciproca), è lotta per (perché l’educatore ha un fine, un orizzonte a cui tendere), e a volte è lotta contro (quando è necessario lottare contro la "forma" che non si esplica).

E’ evidente che negli atteggiamenti a cui ho fatto riferimento (accettazione, empatia, lotta…), che sono dell’artista e dell’educatore, è implicata sempre una reciprocità: il tu ti cambia, l’educatore viene educato, viene portato - proprio perché sa empatizzare, mettersi dall’altra parte - a vedersi da una prospettiva diversa, con gli occhi dell’altro o con l’occhio dell’opera d’arte. Accade proprio perché egli sa mettersi in quella prospettiva, in quella "scatola", e da lì sa vedersi in modo nuovo e scoprire delle meraviglie che non avrebbe potuto vedere prima. L’altro ci induce a cambiare, si instaura una reciprocità: l’opera ci tocca, ci parla, ci scuote, ci sconvolge. Soprattutto i prodotti dell’arte moderna ci sconvolgono, per fortuna, e ci sconcertano.

Dice Arnheim, uno psicologo dell’arte (Verso una psicologia dell'arte, Einaudi 1969, pp.427-428): "Ci sconcertano e ci spaventano perché anziché lusingarci come consumatori e a collaborare alla truffa del profitto, ci pongono spietatamente di fonte alla verità" .

Essere "autori"

In ultima analisi, la complessa lotta di cui sto parlando, che è propria della relazione educativa e della relazione artistica, ci spinge e ci porta ad essere autori; ed è significativo che auctor derivi da augere che significa "promuovere", "far crescere". L’artista, per essere autore, deve certamente possedere un’interiorità, un testo interiore che poi scrive nella pagina bianca (e diventa poesia, opera letteraria, sceneggiatura, opera teatrale…) o sulla tela (e diventa dipinto) o sulla pietra (e diventa scultura) o nello spazio (e diventa installazione) o sulla pellicola (e diventa cinema)…

L’educatore, allo stesso modo, può essere autore e scrivere, lasciare dei segni, nell’anima dell’altro. Ci torna utile una pagina meravigliosa di Platone che, nel Fedro, critica la scrittura, vista come un mezzo esterno, e utilizza per l’educazione proprio il concetto dell’essere autori, dello "scrivere nell’anima":

"In un discorso scritto c’è molto di superficiale, di aleatorio; soltanto nella parola dell’educatore, cioè in ciò che si scrive veramente nell’anima, intorno al giusto, al bello e al bene, soltanto in questo c’è chiarezza, pienezza e serietà. L’educatore capisce che queste parole devono essere proprio sue, come fossero figli suoi, e sa che il discorso, se mai lo abbia trovato, egli lo porta dentro di sé".

Proprio da questo scrivere nell’anima, attraverso la testimonianza ("portare un testo"), proviene l’autorità vera, l’autorevolezza dell’educatore: implica essere autori innanzitutto del discorso dentro di sé, poi del discorso che si scrive nell’altro, aiutando l’altro e gli altri ad essere essi stessi autori: l’educatore in realtà è un autore di autori.

Il "vero artista" – il "vero educatore"

Per finire, certamente non è facile dire chi è vero artista, chi è vero educatore.

Mi affido, allora, alle autorevoli parole del filosofo Kierkegaard, che nel suo scritto Gli atti dell’amore propone un interessante criterio di distinzione fra il falso artista ed il vero artista (con una traslazione, potremmo riferirlo anche all’educatore):

"Facciamo il caso di due pittori. Il primo dice: 'Ho viaggiato molto e ho visto molte cose nel mondo, ma non sono riuscito a trovare un uomo che meritasse un ritratto, né a trovare un qualche paesaggio che fosse l’immagine perfetta della bellezza, così da risolvermi a dipingerlo; sempre ho trovato qualche difetto, perciò la mia ricerca è stata inutile' - un simile pittore sarà mai un grande pittore? - L’altro pittore, invece, dice: 'Io invero non mi presento come un artista, non ho viaggiato all’estero; però qui, senza uscire dalla piccola cerchia di uomini che sono i miei più vicini, non ho trovato un volto così insignificante oppure così difettoso che non avesse qualche lato bello e illuminante, perciò sono contento di esercitare con essi la mia arte'. Non sarebbe proprio questo il segno che era costui il vero artista, perché portava con sé una certa qual cosa che l’altro artista dei viaggi non riuscì a trovare in nessuna parte del mondo, probabilmente perché costui non la portava in sé?"

Il poeta Rilke, nella Lettera a un giovane poeta (p.15) scrive: "Se la vostra vita quotidiana vi sembra povera, non l’accusate; accusate voi stesso, che non siete assai poeta da evocarne la ricchezza; ché per un creatore non esiste povertà, né luoghi poveri e indifferenti." . E, ancora (p.30), invita ad attenersi alle piccole cose "che uno vede appena e che in maniera così imprevista possono divenire grandi e incommensurabili, se avete questo amore per l'inappariscente".

Lois Irsara, il nostro amico scultore della Val Badia, in un'intervista dice: "Tu ami una cosa se riesci a scoprirne la bellezza".

Credo che questa attitudine a immaginare, a cogliere il bello, il meraviglioso che c’è in tutto ciò che ci circonda – e, in particolare, in ciascuno di noi - potremmo chiamarla amore: questo è il segreto più importante dell’artista e dell’educatore.