Michel Pochet

Diritto alla Bellezza

" Dio è bellezza e ama le cose belle. "

Muhammad

Parte prima

Dio e bellezza

La mia esperienza

Un giovane brasiliano mi ha detto un giorno : " In Brasile sei conosciuto da tutti come un grande artista che ha lasciato l'arte per Dio. "

Malgrado l'aspetto doppiamente lusinghiero di questo "riconoscimento", non mi sento proprio "uno che ha lasciato l'arte per Dio". Ho avuto la forza di lasciare tutto per seguire Gesù perché a un certo momento ho trovato espresso come realtà unica quello che nel più profondo di me coincideva : la chiamata di Dio e quella del Bello.

Per anni avevo cercato di risolvere questa dialettica : Dio e bellezza - o per lo meno arte e religione - sembravano in disaccordo ; santità e vita da artista (vita di bohème) sembravano contraddizione in termini. Mentre per me erano un tutt'uno al punto che la mia stessa fede in Dio era stata fortemente scossa dal pensiero, venutomi durante l'adolescenza, che avessi potuto confonderla con l'esperienza estetica, dando al Bello il nome di Dio.

Era - ne sono persuaso - una esperienza costitutiva della mia identità nel senso che risaliva ai miei primi ricordi di bambino, e che non si era mai smentita ma invece sempre rinnovata.

La mia prima esperienza religiosa infatti è nello stesso tempo la mia prima esperienza estetica : Avevo tre anni e mezzo. Nel 1943, durante la seconda guerra mondiale, assistette da qualche chilometro di distanza al bombardamento della mia città. Ma quella notte stellata e le luci del bombardamento si impressero nella mia mente e nella mia anima come pura bellezza e perfetta pace in Dio. Quel Dio che i miei pregavano in questo momento per loro disastroso e pieno di minacce.

Poi l'alternarsi ricorrente negli anni della mia infanzia e della giovinezza della chiamata a seguire Gesù - che nella mia mente coincideva col sacerdozio - e di quella di essere artista, sempre più dolorosamente vissute come incompatibili.

L'idea di rinunciare a l'una per scegliere l'altra era contro natura e non mi pareva quello che Dio volesse da me.

L'adolescenza fu per questa ragione un tempo di profondi e forti scossoni perché quello che sentivo e capivo della mia identità mi era senza possibilità di attuazione. Non c'era posto per me in questo mondo rotto in due parti antagonistiche : il religioso e il profano. E rimpiangevo amaramente altri tempi che pensavo avevano reso possibile l'arte di un Fra Angelico, o la fede di un Michelangelo - i miei più venerati modelli di allora.

Il Bell'Amore

Nella primavera 1959, colpito da una forte influenza, restai qualche giorno senza uscire dalla mia piccola camera di studente nel Quartier latin di Parigi, e, non avendo telefono, non potei chiedere un aiuto. Dovetti contentarmi di mangiucchiare qualche magra provvista e inghiottire dei rimasugli di scatole di compresse.

E fu allora, costretto a letto, che scolpii in un pezzo d'avorio una testa di donna a cui diedi il nome di Bell'Amore. Trasfusi in questa piccola opera le preoccupazioni estetiche che in quello stesso periodo sintetizzavo in una pagina di cui mi è rimasta la minuta. La trascrivo nella sua giovanile ingenuità :

" Bellezza : sorta di coincidenza tra lo spirituale e il materiale ; armonia : simmetria tra il materiale e lo spirituale legati in maniera stabile. Una cosa bella è una cosa in accordo con l'uomo intero. E' poco probabile che una cosa bella abbia un'anima, e tuttavia possiede uno spirito, è la proiezione dello spirito del suo creatore.

La bellezza della natura è semplicemente dovuta all'ordine stesso di questa natura e alla sua natura in rapporto all'uomo. Un'opera d'arte ha in aggiunta la personalità del suo creatore. Ecco perché un'opera d'arte dev'essere espressione dell'artista, pena l'esser soltanto per puro caso in accordo con qualche individuo. Un'opera astratta può essere bella, ma solamente in una certa misura materiale, armoniosa, che quadra con la natura e l'uomo nella sua materia, ma non nel suo spirito perché l'artista non vi ha messo veramente qualcosa di sé. Una macchina a cui si dessero istruzioni, leggi di armonia, potrebbe fare un'opera armoniosa ma essa non sarebbe umana, perché vi mancherebbero lo spirito, il morale, che rendono perfetta un'opera.

Un'opera è bella allorché è utile (favorendo la vita, il naturale) ; utile allorché eleva lo spirito, perché lo spirito deve naturalmente elevarsi. Così le opere sacre sono per essenza più belle delle altre perché complete, non solo esteticamente belle, cioè armoniose materialmente ; esse sono belle moralmente, non solo in accordo con l'uomo ; esse elevano l'uomo verso il sacro, verso Dio, fine assoluto dell'uomo.

Ma ogni opera, se l'artista è profondamente religioso, dev'essere sacra nel senso di elevare l'anima verso Dio. Perché l'armonia, in ultima analisi, è in qualche maniera il principio della creazione divina, è l'impronta di Dio ".

Questa piccola scultura non mi ha mai lasciato. E' sul mio tavolo e mi guarda come lo specchio degli anni trascorsi.Metà profano, metà sacro, il mio ideale somigliava a questo volto d'avorio levigato dagli occhi contemplativi e le labbra ghiotte. La mia vita era tagliata in due. Il profano e il sacro si opponevano in essa, ed io ero immobilizzato. Sognavo di unire insieme la voluttà di essere, di creare e il dono totale, l'oblio di me stesso, il servizio, la contemplazione, l'assoluto. Artista e santo. Scusate se è poco ! Ma l'arte e la religione non formavano più da secoli una coppia unita. La Chiesa e gli artisti avevano a poco a poco cessato di comprendersi e di stimarsi, ed erano andati ciascuno per conto proprio combattendosi o addirittura ignorandosi, il che, forse, e ancor peggio.

Ero un figlio del loro divorzio. Non potevo riandare a ritroso nel tempo, e non lo volevo, a nessun costo. Vibravo con la mia epoca e provavo una repulsione istintiva contro ogni illusione del passato. Io mi volgevo ora verso l'arte ora verso la religione, non potendo scegliere l'una contro l'altra e serbando sempre la speranza di riconciliarle. Ma questa separazione mi era imposta.

La prima immagine che ebbi della mia vita fu segretamente quella del missionario. Poi si delineo molto presto quella, pubblica, dell'artista. Così passai, nell'età in cui i più non sanno che cosa faranno in seguito, per un ragazzo molto deciso. Nel mondo dell'arte inteso nel senso più ampio, mi sentivo la vocazione per tutto, e, se non ho mai ambito a diventare aviatore o corridore automobilista, ho voluto però di volta in volta essere attore, cineasta, cantante, sarto di alta moda, orefice e, naturalmente, scultore e pittore.

Scelsi l'architettura più per ragionamento che per amore, pensando che questa formazione era pur sempre quella che mi avrebbe precluso meno possibilità. Il regista Antonioni era architetto, come l'organista Grünewald. L'architetto Le Corbusier era pittore e scultore ; Michelangelo era stato tutto questo, e in più poeta. L'immagine del missionario si era sfocata e, per dissolvenza, aveva lasciato il posto a quella di Vivaldi, il prete rosso, o di fra Angelico, il pittore del Paradiso.

Sacerdozio ed arte erano quasi sovrapposti nella coscienza che avevo di me stesso. L'artista che donava una vita indipendente alla materia inerte non era lontano dal sacerdote. Concedevo al sacerdote una certa superiorità, perché la comunione alla quale convitava era più perfetta, ma era anche meno accessibile.

Il sacerdote annunziava la cruda parola di Dio a coloro che avessero orecchi per ascoltarla ; l'artista abituava gli orecchi alle dissonanze del sublime, e i suoi nutrimenti terrestri formavano il gusto ai nutrimenti del cielo. Se l'arte era una vocazione, la vita di artista evocava il sacerdozio come il suo coronamento logico. Ogni lavoro umano è senza dubbio un sacerdozio laico, ma più di ogni altra cosa l'arte che eleva l'anima.

L'arte sacra

Ma perché, diavolo, le chiese dovevano essere così brutte, i praticanti così tristi, e le pie donne così male infagottate ? Perché sacro era tanto spesso sinonimo di sdolcinato ? Armonia, armonia, quali bruttezze si commettevano in tuo nome ! La sdolcinatezza era confusa con la dolcezza, la banalità con la misura, la simmetria con la composizione, l'enfasi con la dignità, la rigidità con l'ordine, l'inflessibilità con la nobiltà, la noia con la semplicità.

Allora, sono uscito per strada dove l'asfalto ammollito dal sole bruciante sprofondava sotto i miei piedi, e ho navigato alla deriva nel flusso dei volti affaticati, degli sguardi feriti e dei passi appesantiti. Non reggendo più, sono entrato in una chiesa, non moderna, non rischiarata da mille vetrate sublimi, ma fresca di quella freschezza umida e tagliente delle gallerie della metropolitana. Prostrato su una sedia impagliata marcata a fuoco con una croce come gli schiavi, ho lasciato che l'accesso del mio cuore si placasse. Ho pianto al vedere così poca bellezza là dove me ne aspettavo di più. Ma, con il suo silenzio, il mio ospite mi ha dato di comprendere che non aveva i miei stessi criteri. Me l'ha spiegato con grande dolcezza, senza darmi una lezione, senza farmi del male. E mi ha lasciato credere che l'idea veniva da me.

Dio senza la bellezza

Durante l'estate 1959, in vacanze nelle Alpi Dolomitiche, ho vissuto un esperienza strana : l'intimità con Dio si è staccata improvisamente dal godimento estetico. Provavo Dio molto vicino a me, ma ogni gusto estetico era sparito al punto che la natura circostante che sapevo stupenda mi sembrava totalmente vuotata, fredda, morta, simile ad uno scenario di teatro.

Questa assenza di Dio nella natura (cioè il bello) mi colpì in modo particolare un certo lunedì di gita in montagna dove avevamo raggiunto un posto incantevole : una parete dolomitica a mezzo cerchio accarezzata dal sole nel suo tramonto con sopra un cielo terso di puro cobalto... Osservavo questa fonte di bellezza e volevo bere, ma era completamente secca, e rimasi assetato e turbato.

Tornato in città, camminando sulla via principale, riflettevo su questa impressione che non mi lasciava da giorni ma che era diventata inconfondibile - mentre precedentemente avevo trovato argomenti per negarla -, quando una voce interiore mi disse : " Smettila col confondermi colla bellezza al punto di dubitare della mia stessa esistenza proprio quando ti vengo incontro nella bellezza. Smettila di cercare prove intellettuali della mia esistenza. Credi in me. E stai attento perché può essere l'ultima chance che ti do di credere in me !"

Infatti in in quei giorni mi fu data l'opportunità di decidere di credere in Dio e di sceglierlo, mettendo ogni cosa al secondo posto. Ho racontato in quali circostanze nel libro Dio esiste... per fortuna.

Una idea nuova nasceva in me, impensata e impensabile : La tua arte sarà vivere Maria, nel senso di dare Gesù Bellezza al mondo e questo sarà pure il tuo sacerdozio, perché Maria è l'unica che in verità può dire : " Questo è il mio corpo. " Il tuo sacerdozio sarà, attraverso le tue opere, dare corpo alla bellezza di Dio. E se un giorno diventi sacerdote, la tua arte sarà perfetta perché le tue parole trasformeranno una materia prima, il pane e il vino, nella Bellezza stessa e non più in una semplice opera d'arte.

Visione estetica del mondo

Nell'inverno 1961 successe uno strano episodio che mi pare importante. Si andava in due macchine nel Est della Francia. Ad un dato punto, mi girai per salutare la seconda macchina. Nel cielo il sole era già basso e l'osservai a lungo. Ho ancora oggi negli occhi il ricordo della sua bellezza che mi commosse in modo estremo. Pareva vivere, palpitare come un cuore, danzare nell'azzurro terso e limpido di un cielo purissimo.

Ero fuori di me. Il cuore batteva lentissimo. Non respiravo quasi più. Ad un tratto uscirono dal sole delle ondate di luce dolcissima, come un respiro che allargava sul cielo intero, alternando tutti i colori dell'iride.

Questa visione si è protratta per una mezz'ora all'incirca. Ero preoccupato all'idea che gli altri compagni di viaggio se ne accorgessero. Non sapevo cosa pensare. Mi ricordai del miracolo di Fatima, ma non era uguale. Vedevo il sole come immagine di Cristo, ma cercavo la luna o la stella della sera, come immagine della Madonna, e non c'era. Ma c'era il cielo così azzurro, così pallido, così impalpabile, che seppi che conteneva il sole e traeva da esso la sua sostanza. Non sapevo se ero in preda ad un fenomeno mistico o a un abbaglio del sole e a un gioco della mia fantasia.

Nel frattempo proprio poco lontano davanti a noi, la chiesa di Ronchamp (il capolavoro di Le Corbusier costruito di recente) sagomava, bianchissima, sopra il colle arboreo. Si decise di visitarla. Le sue forme bianche di donna forte mi strinsero, e mi accolsero nella loro potente pace. Compresi che, nel simbolo che mi era dato da vivere, Maria era presente, non come la luna o la stella della sera, ma come il cielo azzurro che conteneva il sole, traendo da esso la sua sostanza. Qui in questa cappella, Maria non era più che una di noi, così vicina e così piccola nei confroti del Mistero, che mi stupivo di averla presentita così grande un momento prima.

Il sole era tramontato, ma la sua luce dorata riempiva il cielo in modo che non c'era più ombra ma solo luce, nel senso che o la luce accarezzava un elemento del panorama e lo metteva in luce, o non esisteva niente. Questa chiesa, le ciminiere delle manifatture e le case di una cittadina nella valle erano materializzate da questa luce, come luce cristallizzata. Non esisteva altro che la luce, il resto spariva, era nulla, non-esistenza e basta. Tutto quello che i miei occhi vedevano, perché illuminato da questa luce, era bello. La bruttezza che sempre è vicina alla bellezza e la guasta, era assente, vanificata.

Avevo l'impressione che i miei occhi, accecati dal sole, vedevano ormai solo la bellezza del mondo. Non solo, con l'intelligenza capivo che in un altra luce questo panorama sarebbe stato molto diverso. Capivo che era precisamente quella luce che mi faceva vedere bella tutta la bruttezza del mondo.

Questa esperienza fu fondamentale per la mia arte in due direzioni opposte : da quel giorno ogni bellezza è stata relativizzata da questa visione di una bellezza senza confronto ; d'altronde, da quel giorno, so che posso trovare ovunque un seme di bellezza. L'arte si è vanificata, e, nello stesso tempo, ha trovato una struggente ragione d'essere. Infatti se Dio vede il mondo così, è urgente mostrarlo agli uomini come lui lo vede perché la sua vera realtà è quella, non quella che pensiamo. Ma ho capito che tutto sta nella luce di Dio e nella purezza dell'occhio dell'uomo. Si dice che l'occhio del santo è uno sguardo di Dio sul mondo... anche in questo vedo una somiglianza dell'artista col santo.

Nei giorni successivi andò a Bastia in Corsica dai miei, e dipinsi un quadro a olio, un quaderno di piccoli acquerelli, e diversi altri acquerelli dove cercai di rendere conto dell'esperienza di Ronchamp.

La tecnica è debole, ma evidente è il cambiamento radicale in confronto ai miei lavori anteriori : Dopo un periodo tutto di ricerche di contrasti in bianco e nero, ecco il colore che invade la carta.

Il gallerista

Poco dopo un amico di famiglia mi mise in contatto con un grande gallerista parigino. Apprezzò i miei acquerelli che si disse disposto a mettere subito in vendita nella sua galleria, però mi spiegò come avrei dovuto lavorare per essere assunto nella sua scuderia e mi mostrò lavori di artisti legati a lui e perciò con la carriera assicurata. Era molto semplice : Bastava che trovassi una caratteristica stilistica originale, facile da riconoscere per poter essere subito individuato, e non cambiare in futuro perché il mercato ha bisogno di chiarezza e di continuità.

Ebbi un senso di ribellione e di disgusto così forte che non mi sono mai più fatto vedere : Avevo capito che fare carriera nell'arte significava una prostituzione della mente e dell'anima ; un plagio di sé stesso per tutta la vita ; la rinuncia alla creazione vera, all'ispirazione autentica che per me era ascolto di Dio.

Da quel giorno mi sono promesso che non avrei mai venduto un'opera mia originale (non escludevo le stampe) per lasciare all'umanità quello che avrei potuto creare per lei e non per venditori e compratori di anime. Infatti, da quel giorno non ho mai venduto ne regalato niente. Quando devo regalare, dico sempre che quel lavoro non è regalato ma messo in deposito per un tempo indeterminato, ma che rimane proprietà dell'umanità.

Verginità feconda

Mi sono laureato in architettura ma circostanze, che non è il caso di racontare qui, mi hanno impedito di esercitare la mia professione ma non mi costava esageratamente perché non sono mai stato attaccato ad una forma d'arte particolare. Sentivo in me delle potenzialità multiformi. Tutti i campi della cultura mi attraevano. Per diversi anni solo perdetti delle forme possibili di azione artistica, ma non la speranza di realizzare un giorno una opera (se questo fosse il disegno di Dio su di me).

In fondo la mia intera esperienza artistica è consistita nel perdere e ritrovare, per perdere nuovamente e più radicalmente ancora, e ritrovare in un modo più puro. Mi sono sempre sentito confermato in quanto artista, e sempre impedito di produrre un opera artistica. E non tanto da una proibizione esterna quanto da un senso fortissimo che proprio questo è il mio modo di essere artista : non essendolo, o, meglio, non facendolo.

Per essere fedele a me stesso (voglio dire a quello che pensavo fosse il disegno di Dio), cercavo un modo compatibile con la mis vita e le responsabilità mie - per sviluppare i miei talenti e conservare la mia lampada accesa, in modo da non essere sprovveduto quando una certa mattina mi sarebbe stato chiesto di fare per lui un film o una poesia, un romanzo o una pittura.

Ero profondamente consapevole dell'obbligo di non seppellire i miei talenti per paura, e di non "mancare d'olio" per negligenza. Non gli altri erano responsabili del disegno di Dio : Dovevo essere obbediente e staccato ; dovevo darmi - e con gioia !- ma non mi era lecito disprezzare ne distruggere i doni di Dio.

In questo senso il centuplo non è mancato : Ho imparato a scrivere lavorando a traduzioni in francese e poi ad altri libri. Ho sempre scritto per una utilità precisa, rispondendo ad una certa richiesta, ma più profondamente per vincere le mie paure davanti alla pagina bianca, e risolvere diversi problemi di composizione letteraria.

Ho pure approfondito la mia conoscenza della pittura usufruendo sia delle opportunità alle volte umilianti delle ordinazioni, specie per l'editrice, che di certi momenti di stanchezza dove il mio hobby poteva essere ammesso (da me stesso e dagli altri) come un riposo. Non mi ricordo di avere fatto mai - dal tempo della mia giovinezza - un opera solo per una necessità creativa personale, ma ho avuto in compenso la gioia di progredire sempre nella mia arte ; senza opere superflue ; senza dovere plagiarmi ; senza mai stancarmi dalla bellezza.

Ho cercato di capire in profondità il linguaggio cinematografico che mi è sempre sembrato particolarmente congeniale a me, e per quanto (pochissimo in verità) mi è stato dato, ho sperimentato quello che avevo capito.

Poi sono entrato in un vicolo cieco : Il tempo passava ; la parabola della mia vita entrava decisamente nella sua parte discendente ; le mie capacità fisiche e mentali regredivano ; e la probabilità di realizzare un opera artistica si rarefava.

Prima mi risolvai con l'idea che se il disegno di Dio su di me non fosse l'arte come credevo, era vano fare cose che non sarebbero rimaste - o grande artista, o niente !- se invece il disegno di Dio era proprio quello, si sarebbe attuato comunque, eventualmente con poche opere - al limite una unica opera - ma di una tale novità che avrebbe lasciato un'impronta nella storia dell'arte.

Successivamente mi risolvai pensando che un eventuale disegno di Dio poteva avverarsi anche senza nessuna opera mia : Di tanti artisti mitici rimane poco o niente della loro opera (Prassitele, Rublëv) e sono considerati da tutti come archetipi dell'artista perfetto. E mi veniva questo pensiero, che poteva essere di una arroganza unica : Se uno fosse ritenuto dalla posterità come un vero artista, senza avere prodotto un'opera che testimoniasse questo suo essere, allora sarebbe proprio un disegno di Dio. E mi convincevo che non è il fare che conta, ma l'essere.

Non solo, ma mi veniva in mente che si parla di paternità spirituale come centuplo di una rinunciata paternità fisica. Non manca la paternità, e la verginità in questo senso è più - o meglio - feconda, anche perché la vita trasmessa è la Vita stessa e perciò eterna. Pensavo : Non sarà così anche per l'arte ? non sarà che l'arte spirituale, centuplo dell'arte fisica, rimane per sempre perché è la Bellezza stessa ?

Capivo la chiamata alla verginità come una chiamata a non restare limitato all'amore e alla fedeltà ad una sola persona, ma poter amare tutti senza restrizione. Vedevo Don Giovani in qualche modo molto vicino al vergine, solo che la sua ricerca è tragicamente vana. Così mi chiedevo se l'amore a tutte le bellezze non mi aveva portato a scegliere il Bello, rinunciando facilmente alla specializzazione e alla fecondità limitate, e frustranti per me, di una sola arte.

Nel 1974 scrivevo in proposito : " Vergine è il Bell'Amore. L'artista vero non feconda. Custodisce la sua semenza in lui. E' silenzio e riposo. Attesa tranquilla. E' intatto, integro, immacolato. E' accoglienza, apertura. Terra pronta per il seminatore, l'unico Artista, il Creatore.

Nel momento debito germoglia in lui il Bell'amore. Allora ognuno dei suoi atti è un capolavoro. Ognuno dei soi scritti è poesia. Ognuno dei suoi passi è danza. Ognuno dei suoi sguardi è pittura. Ognuna delle sue parole è melodia.

La bellezza in cui l'artista penetra gli da un amore diverso, un amore bello, un amore uno e torna nel mondo di cartone e di stelle morte in cui il sole brilla di una luce fredda, assetato di artifici, di disarmonia, di tutto ciò che è, ed esso è l'orrore, l'ignominia, il disgusto, la cacofonia.

E per lui ogni volto sarà sorriso immortale, perché lo guarderà attraverso la piaga del mondo, e ogni barlume sarà stella e, coperta di un puro manto di azzurro, la terra ritroverà la sua bellezza originaria. "

L'essere e il fare

Nel fra tempo, i studi finiti, ero stato mandato a Bruxelles in un posto di responsabilità. Sono rimasto ventiquattro anni in quel posto e in quella funzione.

La mia lunga permanenza in Belgio avendo finito per logorarmi, lasciai Bruxelles. Nel periodo di riposo che seguì, ebbi l'opportunità di fare alcune esperienze in diversi campi artistici, architettura, poesia, pittura, che sarebbe lungo raccontare qui - magari lo farò a parte un'altra volta - ma che tutte conducevano alla stessa conclusione : Per tutta la mia vita non ho fatto l'architetto, il poeta, il pittore, ma lo stesso sono architetto, poeta, pittore. E sentivo che avrei potuto fare la stessa esperienza in altri campo dell'arte e che sarei arrivato alla stessa constatazione : Non ho fatto l'artista, non ho dietro di me un opera per rassicurarmi sulla mia identità di artista, e nonostante sono un artista.

E mi è venuto in mente in questi momenti di bilancio della mia vita : Se avessi lavorato tutta la vita in un campo particolare e dovessi oggi rendermi conto di aver fatto un opera ma di non essere un vero artista, sarebbe tragico perché è l'essere che vale, non tanto il fare.

Attualmente mi è stato affidato gli artisti e il Mondo dell'Arte in un Movimento ecclesiale. Non so ancora bene cosa significhi questa carica. E' una realtà nuova che nasce, e come tutte le nascite non è senza travaglio. Ma tutti contatti con gli artisti che ho potuto avere mi hanno convinto che tutti aspettano qualcosa e che sono disposti a lansciarsi nell'avventura dell'Unità. Con la pazienza e una grande libertà di spirito, penso che capiremo un po' alla volta cosa Dio vuole per gli artisti, e da loro.

Arte di comunione

Una conseguenza di una esperienza profonda dell'Unità, molto sentita dagli artisti, è una chiarificazione dell'arte. Anzi intravedono un legame intimo - quasi identificazione - tra bellezza e verità, tra anima dell'artista e anima del santo...

A questa grande speranza di un'arte ideale corrisponde in diversi artisti una uguale insofferenza davanti al rischio di un'arte ufficiale. I criteri estetici impliciti nell'idea di un mondo unito non sono stati ancora capiti ne precisati ; una certa confusione esiste nel affermare che quello spettacolo, quella scultura, quel batik, quel edificio, quel vestito... è arte nuova.

D'altronde l'idea dell'eccellenza di un lavoro fatto in unità, in sé molto interessante, è usata certe volte per esercitare un controllo, per non dire una censura ; o comunque porta a delle attività artistiche, pubblicizzate come fatte in unità, che lasciano perplessi. Vedrei molto utile una seria riflessione sulla creazione artistica in unità, sui suoi limiti e le sue modalità.

Vuotarsi di sé non significa mimetizzarsi con gli altri, anzi è proprio il contrario : E' trovare la sua personalità in quello che di essa è più vero, più divino, più diversificato. Due persone vuote di sé stesse non sono uguali ; sono vuoti di due persone diversi ; sono queste due persone in vuoto ; due stampi diversi che, riempiti da Gesù, produrranno due Gesù diversi come diversi sono i disegni di Dio su ciascuno. Certo l'immagine di Gesù sarà precisa in proporzione della vacuità della persona ; se non lascia proprio niente di sé ne di altro in sé stessa, allora il disegno di Dio si manifesterà in lei in tutta la sua nitidezza, unico, irrepetibile.

Perciò un'arte in unità, un'arte di comunione, come qualcuno la chiama, suppone un'unità che non mortifica nessuno degli artisti che lavorano insieme, ma al contrario deve mettere in luce il meglio di ciascuno.

La sensibilità artistica e la sensualità

Per gli artisti che vogliono vivere seriamente la loro fede, esistono delle difficoltà reali che devono considerare con coraggio. Tradizionalmente nel mondo cattolico si pensa che un artista non può essere un consacrato per via della sua sensibilità particolare che gli impedirebbe di essere veramente solo di Dio. (In questo senso tra la Chiesa cattolica e il mondo dell'arte si è sviluppato un secolare malinteso che Paulo VI ha tentato di sfatare con parole e atti coraggiosi.)

Gli artisti hanno purtroppo dato tanti esempi clamorosi a conferma di questa percezione negativa della loro sensibilità. Si osserva una sensibilità che porta loro ad una sensualità eccessiva ; ad una incapacità di vivere una vita affettiva e sessuale proprio normali - tanto meno la verginità consacrata !- L'arte sembra legata ad una licenza dei mori, priva di ogni freno. Comunemente certi ambienti artistici sono, a torto o a ragione, percepiti come moralmente negativi e perciò da fuggire.

Mi pare che è necessario partire da una visione ottimistica - anche se non ingenua - dell'arte, perché l'umanità senza cultura, senza arte, senza bellezza sarebbe proprio una umanità triste e disumana.

In questa prospettiva mi pare interessante un parallelo audace tra l'arte e la mistica. Anche la mistica è sempre stata molto sospetta e non senza buone ragioni. Anche per la mistica si vede il rischio di una sensibilità esagerata che può portare a deviazioni più o meno gravi nel campo morale. Ma la vita religiosa, e in particolare la vita cristiana, priva di mistica non ha né senso né avvenire. La difficoltà è gestire bene e ecclesialmente quelle che sono ricchezze non solo personali ma per tutti.

La nuova dimensione di unità, di perdita nei fratelli, è la garanzia di una mistica vera ed equilibrata. Così per me si deve gestire anche i doni artistici.

Ho notato che l'estetica porta ad un certo superamento della sensualità, ma non sempre in un modo convincente. Esiste un ascesi fortissima nella ricerca appassionata della bellezza. Tanti artisti hanno rinunciato alla vita facile e affettivamente semplice per perseguirla. Questo ha avuto sovente di fatto delle conseguenze moralmente negative, ma mi chiedo se la loro ricerca fosse stata capita e incoraggiata con amore e nella verità, se non si poteva evitare lo sbandamento psicologico e morale.

Ci vuole l'equilibrio degli aspetti della vita e gli artisti - ne sono convinto - hanno la forza di farlo in modo giusto. In compenso una vita monca, priva di armonia, di cultura, di ricreazione - se sono gli aspetti più attinenti alla bellezza - proverà maggiormente un artista di un altro.

Il bisogno di riconoscimento

Un'altra difficoltà che incontra un artista è il suo bisogno di riconoscimento, di applausi, di feedback. E' una difficoltà tipica degli artisti, delicata da gestire per loro e per i loro vicini, ma non esagererei sulla sua gravità, pensando che è legata all'insicurezza derivata dalla novità che un artista deve produrre per essere se stesso.

Si può vedere in questo bisogno di riconoscimento non una ricerca di vana gloria - e perciò una pretesa, un orgoglio - ma più probabilmente una fragilità, una necessità vitale per poter continuare a creare novità. L'artista non può appoggiarsi neanche sulla propria esperienza. Quando un artista si limita a quello che sa fare, già non è più artista autentico, ma semplice funzionario dell'arte.

Ho notato che l'artista è sia messo eccessivamente in rilievo, sia disprezzato. Questi due atteggiamenti hanno la stessa conseguenza di emarginare l'artista che non è quel mezzo Dio, e neppure quella bestia.

In questa involuzione i così detti critici d'arte hanno una responsabilità storica molto pesante. Sono loro che fanno e disfanno gli artisti. Sono la porta stretta della notorietà e del mercato dell'arte. Distribuiscono a chi vogliono diplomi di genio e imboccano le trombe della rinomanza per esaltare la loro scoperta, o elevono mura di silenzio davanti a quelli che non hanno avuto la fortuna di piacere a loro.

C'è tanto da normalizzare l'arte. La strada mi pare stia ancora nell'equilibrio degli aspetti della vita, che consacra e divinizza tutta la realtà umana incarnandovi tutta la spiritualità.

Se tutto l'umano può essere divino, e deve esserlo, allora l'arte che testimonia un'altra dimensione della realtà non è più magica : Torna ad essere umana. E se ogni atto umano può essere ispirato, l'ispirazione artistica cessa di essere mostruosa, ma deve, e può, attingere alla sua vera fonte : il verbo incarnato, il più bello tra i figli degli uomini, splendore del Padre.

Parte seconda

Diritto alla Bellezza

Bellezza democratica

Reclamo il diritto alla bellezza. La bellezza democratica. La bellezza popolare. Chi difende i proletari della bellezza ? Per avervi diritto, bisogna essere un amatore. Un amatore illuminato e fortunato. La bellezza abita in prigioni dorate. Chi è in grado di accedere alla bellezza ? Chi può sviluppare il suo gusto la sua sensibilità, i suoi talenti ? Chi, se non a una piccolissima minoranza di privilegiati ? Una classe estetica. Una casta culturale. Con il suo gergo. I suoi costumi. I suoi riti. E' una classe chiusa, le cui membra relativamente poco numerose sono per lo più iniziate da bambini in un contesto familiare propizio.

Ma gli altri, i milioni d'altri ? Quelli che non hanno che il paesaggio delle città industriale come esempio di urbanistica e di architettura ; i titoli del giornale solito come letteratura ; i manifesti variegati della metropolitana per iniziarli all'armonia dei colori ; le tele novelle per introdurli nella settima arte, e i giochi teletrasmessi per ornare il loro spirito. Quelli che conoscono solo un cielo rettangolare sopra un cortile immobile e conducono una vita grigia nell'attesa della pensione, e saranno troppo vecchi e troppo affaticati per vivere quando la vita sarà possibile.

Tutti loro hanno diritto alla bellezza. Bisogna dirlo, ridirlo, gridardo dai tetti. Bisogna che tutti prendano coscienza di questo diritto, misconosciuto, se non beffato di proposito da una società fondata così spesso sul disprezzo dell'uomo.

Quando tecniche pubblicitarie, pressioni sociali, la forza dell'abitudine, il desiderio di profitto immediato, fanno il successo di monumenti di cattivo gusto, di mode volutamente passeggere, e scoraggiano ogni iniziativa capace di ridare alla vita quotidiana questa dimensione umana che sembra aver persa per sempre, il compito è troppo grande, le difficoltà troppo numerose, gli interessi in gioco troppo importanti, perché le iniziative rimangano isolate. Si tratta di un dovere della società, Si tratta di misure politiche. Si tratta di un diritto, Si tratta del diritto all bellezza.

L'urbanistica deve essere ripensata, la produzione industriale, la radio, la televisione, il cinema, la pubblicità, l'insegnamento. Si, si tratta di un compito enorme. Si tratta di riconoscere il diritto degli uomini alla bellezza e di agire conseguentemente.

Diritti della Bellezza

Ma a chi indirizzarci per definire e difendere il nostro diritto alla bellezza, e quello di ogni cittadino ?

La bellezza non è una prerogativa di un governo, perché è la società stessa che è responsabile della sua architettura e della qualità dei sui architetti.

La bellezza del paesaggio, dell'urbanistica, delle case, degli oggetti e delle loro relazione reciproche è un diritto nella misura nella quale ci sentiamo legati da doveri verso di essa.

Se assistiamo ad un decadimento nel campo della bellezza, è per via di una grande insensibilità pubblica, di una passività di tutti e i ognuno.

Si consuma senza partecipare con la riflessione, e tanto meno con il sentimento. Si aspetta che l'industria fornisca le attrezzature che un'adeguata pubblicità farà comprare. Succederà addirittura che l'argomento di vendita sia estetico, un gioco di colori, una forma scelta apposto perché studi dimostrano che una tale bellezza si vende meglio.

Ed ecco che si prostituisce la bellezza estetizzando tutto.

Case, refrigeratori, autobus, maniche di porta, telefoni, insalatiere, bottiglie di detersivi, tutto diviene oggetto di estetica. Ma la bellezza ci si ritrova ?

Abbiamo dei doveri verso la bellezza, un dovere di bellezza, ma non siamo educati per contribuire alla bellezza dell'ambiente dove viviamo.

Pertanto le qualità del ambiente potrebbero essere espresse con le stesse parole che le qualità degli uomini : franchezza, purezza, esattezza, solidità, spontaneità, autenticità, gaiezza, accoglienza, semplicità, onesta... Siamo lontanissimi dell'estetismo. Ma è che l'alloggio e la città e il paesaggio non sono che i prolungamenti più o meno diretti e riflessi degli uomini che circondano e proteggono. E sono le qualità, o i difetti, di questi uomini e di queste società che si iscrivono negli oggetti, i mobili delle nostre case, nei muri, le piazze i parchi delle nostre città.

Non siamo più naturali, spontanei, semplici, vicini della natura, non viviamo più secondo il ritmo delle stagioni e dei giorni, abbiamo perso il contatto con i materiali, con il vero legno, con la vera pietra, il vero cuoio, il vero metallo, il vero vimine, la vera ceramica. non abbiamo più il senso spontaneo di tutte queste cose, e non siamo educati a capire i nuovi valori, l'anima dei nuovi materiali e delle nuove tecniche.

Un secolo fa i principi formati da una educazione particolare avevano assieme le responsabilità e i mezzi e decidevano... un castello, una piazza, una cattedrale. Tutto il resto era lasciato al senso innato delle relazioni tra le cose materiali realizzate da artigiani. Architetture spontanee che fanno mostra di una coscienza esatta di quello che le cose devono essere, esperienza diretta delle cose. Non ci sono più uomini così, che conoscono l'anima della materia e amano interrogarla.

Siamo passati a una altra era dove la meccanizzazione, l'industrializzazione, la standardizzazione sembrano imprigionarci ineluttabilmente nelle reti di una estetizzazione a oltranza. Come se la bellezza si acquistasse, si mettesse in stampo e si riproducesse all'infinito. Come se fosse una vernice con la quale si può ricoprire tutto. Mentre la bellezza è una ricompensa, uno stato di grazia nel rapporto tra uomini e cose.

Le invenzioni formali, appena nate, sono recuperate dal sistema che ne moltiplica gli ardimenti, sapientemente ricondotti al minimo. Tutto è cilindro, cubo o uovo, o si rammollisce in libere ondulazioni calibrate, o ancora si munisce di punte standard intercambiabili garantite un anno. Pop, extra, super e iper si susseguono e si raccolgono nella noia che nasce un giorno dalla diversità. Una generazione ha l'arte che merita. Cos'abbiam fatto per attirarci tanta bruttezza ?

Funzione, Struttura, Forma

Osiamo dire che bisogna cambiare l'uomo, che bisogna educarlo, sensibilizarlo di nuovo. Bisogna che lo sviluppo della sensibilità plastica sia favoreggiato dalla scuola, e nel contempo il spirito costruttivo e la conoscenza della materia e delle sue esigenze. Che sia rivelato ai bambini questo equilibrio tra Funzione, Struttura e Forme che è segno dell'architettura fino alle cose familiari, agli semplici oggetti usuali, i mobili.

Si, bisogna formare degli uomini che conoscano qualcosa del mondo delle forme, e conoscere richiede intelligenza ma anche stima, rispetto, in una parola amore di quello che si conosce.

Bisogna formare degli uomini rispettosi del mondo delle forme così complesso e unitario, fatto dall'equilibrio intimo di così tanti elementi sovente contraddittori, a volte umilissimi e quasi non scopribile e che un viglilante amore sa discernere, salvaguardare e valorizzare.

Abbiamo molti esempi di vita equilibrata, felice di persone o di gruppi, che si esprime spontaneamente in un ambiente armonioso, dove si vive bene. Tutto è al posto giusto, tutto è bello, anche se l'estetica non c'entra. E la bellezza ci sembra la ricompensa, la conseguenza di una vita tesa più o meno coscientemente verso la sua conquista.

Ci sono persone che creano l'armonia attorno a loro. Esistono nella storia delle società che hanno espresso la loro anima in una bellezza così sublime da farci desiderare di assomigliare a uomini capaci di tale armonia. Ma si osserva allora che queste società possiedono prima di tutto un'etica che si esprime in un'estetica originale e durevole.

Cerchiamo

Siamo vivendo una crisi di scetticismo. Diffidiamo della ragione e non abbiamo tutti torti. Dubitiamo dei nostri sensi. Le nostre reazioni ci sconcertano. Bruciamo ciò che idolatravamo. Siamo colmi di ammirazione dinanzi ad ogni novità radicale, che rimanda per una stagione il nostro spirito critico alle novità radicali della stagione precedente.

Siamo in crisi, ma la nostra crisi è inebriante. Cerchiamo... La gente modesta è sconcertata e non arriva a comprendere le nostre manifestazioni artistiche. Non siamo un po' inquieti ? dovremo.

Nei periodi felici della vita intellettuale e della vita artistica., c'era una partecipazione popolare. Il popolo s'interessava, perché esisteva una stretta relazione tra la cultura, il pensiero, e l'esistenza quotidiana. Attraverso le nostre forme noi ci cerchiamo. Non siamo più soddisfatti delle vecchie forme, ma nessuna delle nuove ottiene la nostra unanimità. Attendiamo una sintesi che ci esprima nelle nostre esigenze più intime. Quando gli artisti si decideranno a entrare veramente nel mondo moderno ? Quando usciranno dal loro individualismo per scoprire che siamo tutti, loro e noi, entrati in una fase collettiva ?

Che c'importa che alcuni artisti siano di sinistra, se restano individualisti ! Che c'importa il loro realismo socialista, se è opera di uno solo ! Come ci esprimerebbero realmente senza uscire dalla socializzazione estremista o dal dilettantismo distinto ? Non possono più estrarsi dall'umanità d'oggi con tutte le sue caratteristiche, con i nuovi tipi di rapporto che vi si annodano. E non devono estrarvene, sotto pena di cadere tosto nell'oblio. Se anche dicono cose belle e positive, esse non ci riguardano, perché sono estranee al mondo in cui viviamo.

E' vero che noi ci riconosciamo nelle loro decomposizioni. Per un verso avremmo voglia di ridere davanti a questo vento di follia che apporta abili promozioni commerciali. Ma se guardiamo più in profondità, dobbiamo riconoscere che siamo così, precisamente come loro ci rappresentano. Che tutti, tutti quanti, siamo un po' nevrotici, un po' folli. La loro arte esprime esattamente nostro stato animo. Vorremmo essere questo e quello, aver tutto in noi, ed essere un po' tutto. Siamo un po' schizofrenici. La loro arte caotica ci somiglia, perché siamo caotici interiormente e nei nostri rapporti. Loro sono tuffati in una umanità che ha fatto esperienze così ricche e profonde, che essa sente che le forme precedente non le bastano più per esprimere l'uomo qual è. E' la crisi di uno schema, di un modello. E' la crisi di un complesso di valori, alcuni dei quali gli artisti riprendono, perché ciò che è valido non è mai definitivamente rifiutato.

Unità e distinzione. Gli artisti devono scoprire che sono più sociali di quanto credono e più personali. Sono più soli in certo senso, pur essendo più integrati agli altri. Se la loro arte è aberrante, è perché esprime una umanità costretta a vivere solidalmente mentre è ancora disunita. Esprimono ancora mille sentimenti non ancora armonizzati.

I veri artisti sono quelli che giungono a dare forma, al di là delle tecniche che hanno imparato, alla realtà che possiedono interiormente. Se non arrivano ad armonizzarsi interiormente, non arriveranno mai a creare una nuova arte che ci soddisfi.

Parte terza

Il Museo mentale

L'arte live

Le persone non educate alla bellezza si lasciano troppo facilmente abbindolare da una pseudocultura di massa tutta orientata verso lo sfruttamento del mercato della bellezza. Esiste una produzione colossale di riproduzioni di opere d'arte celebri che ormai ornano i muri di numerose case. Rischiando di sorprendere dirò che malgrado la qualità - legata sovente a un prezzo non indifferente - di questi poster non riesco ad abbtuarmi a vederli appesi trionfalmente come se fossero autentiche opere. Certo sono piacevoli, ma solo per chi non conosce l'originale. Assicuro che uno che ha visto con i suoi occhi la Trinità, o la Bella Vetrata, Monna Lisa o la Camera di Van Gogh non sopporta più una riproduzione.

Sogno di fare fare a tanti e specie ai giovani questa esperienza dell'arte live come l'ho fatta io. Vincere la paura che impedisce di entrare nei musei e andare a vedere da vicino i capolavori. Fare l'esperienza della differenza tra un capolavoro e un opera minore. Non per diventare critici, storici dell'arte, ma solo per gioire della bellezza a lo stato puro, allo stato nascente. Imparare a guardare, e perché non a sentire andando a un vero concerto, suonato da musicisti in carne ed ossa, o al teatro vedere degli attori, oppure in una sala di cinema veder cos'è la settima arte quando non è ridotta ad una semplice riproduzione come alla televisione.

Invitation au voyage, invito ad un viaggio purtroppo immaginario. Amerei invogliare il lettore a crearsi il proprio museo mentale, fatto di esperienze personali della belleza. Spero di dare in queste pagine una certo metodo per costituirlo. Dovrò parlare di opere che costituiscono il mio museo mentale, pertanto so che tanti lettori non conoscono l'una o l'altra. Ma non importa quale bellezza o quale opera tocca una persona, ma che faccia l'esperienza di essere toccata. Che lasci la bellezza dimorare nella sua interiorità. Che incominci ad provare nuove gioie di caratere estetico, e questo sarà la prima sala del suo museo mentale. In francese si dice : " Meubler son esprit ", arredare la propria mente. Ecco propongo di arredare la propria mente, di decorarla con bellezze autentiche, sicure, e non con prodotti di consumismo. E questo richiede una certa fatica.

Settima Arte

In cento anni il cinematografo, l'immagine in movimento, trasformatosi ultimamente in televisione, si è impadronito della nostra vita quotidiana come un ospite piacevole e incomodo col quale dobbiamo per forza convivere. Ci farà bene ripercorre la sua storia per conoscerlo e per capirlo, e trovare un rapporto giusto con lui, senza timori pregiudiziali ne eccessivo rispetto.

Il cinema è nato come documentazione della realtà, come divertimento, e subito come vera e propria scrittura di un arte nuova, alla quale si è attribuito il numero perfetto di settima ; è stato usato come arma di propaganda politica totalitaria e come mezzo di diffusione di una cultura popolare ; è stato il campo di battaglia di colossali interessi economici oltre che ideologici ; ma sempre nuovi autori hanno saputo anche con mezzi minimi creare capolavori negli quali le nuove generazioni si sono riconosciute. In somma il cinema è stato all'immagine dell'uomo di sempre : pieno di difetti, ma simpatico e capace di grandi cose. Merita conoscerlo meglio !

Merita inoltrarsi nella conoscenza di tanti capolavori che ci darebbe grandi gioie, e, formando il nostro gusto alla scrittura dell'immagine, ci renderebbe capaci di giudicare la massa di immagini in movimento che ci aggredisce ogni giorno attraverso il piccolo schermo.

La cinematografia dovrebbe essere insegnata nelle scuole come la scrittura e come la lingua madre per non essere degli analfabeti incapaci di leggere il mondo nostro che è quello delle immagini.

Iguaçu

Ma vorrei incominciare dall'esperienza diretta della bellezza della stessa natura. So quanto è stato importante per me avere una madre e un padre capaci di estasiarsi davanti un tramonto, un temporale, un fiore, un insetto, un canto d'uccello, un ciottolo levigato dal mare.

Imparare a guardare, ad ascoltare. Imparare il silenzio necessario all'ascolto e quella castità dell'occhio che consente di guardare.

Porterei tutti giovani a Iguaçu, le famigerate cascate alla frontiera tra Brasile e Argentina, che sonno state usate come set per scene impressionanti di diversi pellicole come Mission di Joffé, sicuro che farebbero l'esperienza sconvolgente che fanno tutti turisti, trasformati dalla bellezza potente, schiacciante, delle cascate in pellegrini silenziosi e meditativi.

Vorrei che tutti facessero la scoperta delle gioie intime, inconfondibili che porta la bellezza, perché avendo gustato la bontà della bellezza nasca in loro il gusto della bellezza e il buon gusto, il discernimento spontaneo che separa il vero bello dai i suoi volgari plagi.

Olinda e Recife

Rimanendo in Brasile, visiteremo insieme Olinda e Recife. Olinda che la decadenza politica ed economica salvò dalla distruzione tipica delle città mercantili. Non è dei pionieri né dei mercanti, capire il valore della storia. I mercanti non hanno nessuno complesso nel modernizzare le loro città. Distruggono il vecchio per mettere al suo posto il nuovo, secondo il gusto ultimo. Come la moglie di Aladino, scambiano volentieri la preziosa lampada contro una nuova sprovveduta di qualsiasi magia. Così l'opulenza mercantile di Recife fu l'occasione di periodici rinnovamenti del centro storico a scapito di innumerevoli splendidi monumenti coloniali, poi di interessanti edifici della fine del secolo scorso. Mentre Olinda dopo un periodo breve di gloria è entrata in letargo e questo dramma umano ha paradossalmente salvato tutta la magia di uno stupendo insieme di architettura coloniale che, a ragione, è considerato come un patrimonio dell'umanità.

Salvador di Bahia

A Salvador faremo l'esperienza della differenza sostanziale tra i spettacoli per turisti e il Candomblé autentico vissuto nel Territorio di una Madre di Santi. Ci colpirà la bellezza rozza, sincera, vitale di questo ultimo in confronto alla spettacolarità sgargiante e volgare dell'altro.

Ci darà dolore la trasformazione del Pelourinho in una sorta di scenario per pellicola in scope e technicolor dove la gente del posto è ridotta a comparse esotiche per il piacere del turista protagonista.

Sul sagrado di N.S. do Carmo ci fermeremo per guardare un gruppo di giovani atleti occupati ad allenarsi nel sport che tutti neri desiderano praticare : la capoeira. E ci sconvolgerà la bellezza di questa arte marziale proibita per secoli e camuffata in ballo a suono di strumenti strani. Bellezza derivata dalla trasformazione della violenza di un duello e delle sue tecniche letali in una sorta di pas de deux, ballato con estrema precisione, allusivo e simbolico, dove i corpi muscolosi e flessibili dei contendenti si intrecciano di continuo senza mai toccarsi. Danza virile per eccellenza, e pertanto elegante e raffinata che testimonia grandi valori culturali.

Ci colpirà il suono, tutte le vibrazioni che riempiono l'aria di Salvador, a ogni ora, in ogni luogo. Bambini, giovani, adulti, vegliardi, tutti creatori di una musica nello stesso tempo rozza e delicata, selvaggia e dolce. Vedremo bidoni di ferro, pezzi di legno, oggetti più impensati, trasformarsi in strumenti musicali armoniosi nelle mani di questi virtuosi di strada.

E intuiremo con sorpresa e commozione quanto dolore, quanta nostalgia, quanta religiosità, i ritmi e i balli apparentemente gioiosi e spensierati rivelano, nascondendoli.

Ouro Prêto

Ouro Prêto è stato salvato dalla sua caduta in disgrazia. Quella che fu la potente capitale del oro e dello Stato delle miniere, trovandosi in una situazione geografica che rendeva difficile la sua estensione, un secolo fa si creò Belo Horizonte e nel contempo si conservò intatta Ouro Prêto. Felix culpa !

Ci arrampicheremo sulle strade selciate fino a Santa Efigênia la chiesa dei schiavi, per vedere da lì il più bello panorama della città costruita sul fianco ripido di una montagna pietrosa.

Ouro Prêto ci apparirà come una città di montagna, sobria, seria, quasi austera. Avremo la sensazione di scoprire una cultura non più solo coloniale, ma già indipendente dalla madre patria : già brasiliana. Non ci stupirà che proprio qui scoppiò l'Inconfidencia.

Visiteremo tutte le chiese : la Matriz do Pilar, con la sua stupenda decorazione interna interamente scolpita e dorata ; N. S. do Carmo, e soprattutto São Francisco de Assis dove ci commuoverà La glorificazione di Maria, l'affresco del soffitto dipinto da Manoel Costa Ataide, che rappresenta per la prima volta probabilmente la Madonna sotto la sembianza di una schiava nera.

São Francisco è una monumento che sviluppa un barocco assolutamente originale dovuto al genio libero e anticonformista di un artista eccezionale l'Aleijadinho.

L'Aleijadinho

Per conoscere meglio l'Aleijadinho, ci sposteremo fino a Congonhas dove ci imbatteremo con la festa patronale del Senhor Bom Jesus - uno dei vertici spirituali dell'America latina - meta di migliaia di pellegrini e di venditori ambulanti. Ci apriremo difficilmente la strada nella folla densa, tra le bancarelle variopinte, e frastornati dalla musica diffusa da altoparlanti approderemo alla praça da basilica.

Cominceremmo la visita dalle cappelle situate più in basso del santuario perché l'impressione è molto più travolgente e commovente quando si accede alla terrazza dei Profeti dopo aver seguito la via sacra fiancheggiata da sei cappelle le cui statue situate all'interno raccontano la via crucis.

E' l'Aleijadinho che tra 1796 e 1799 ha scolpito questo colossale insieme di 66 statue di cedro, a grandezza naturale, e policrome. I visi, i sguardi, le mani ci parleranno con tale realismo della speranza, della paura o della sofferenza da farci pensare che l'Aleijadinho ha dato a questo dramma della vita di Cristo, una potenza raramente uguagliata nella storia dell'Arte religiosa. La terrazza dei Profeti per la quale l'artista fecce dodici statue in pietra sapone non sarà meno eccezionale. Con la terrazza dei Profeti e la Via crucis, l'Aleijadinho ha dato tutta la misura della sua arte, della sua sensibilità e della sua fede. Saremo in presenza di un scultore geniale che ha dato al Brasile e all'America latina uno dei suoi maggiori capolavori di bellezza e di fede.

L'ammirazione e la commozione che sentiremo davanti a questo capolavoro saranno ingrandite dal pensare che l'Aleijadinho eseguì queste statue alla fine della vita, in condizioni durissime, perché soffriva molto per la sua orrenda malattia che rodeva l'estremità delle sue membra. Per lavorare, faceva fissare ai suoi monconi lo scalpello e il pesante martello, e portava delle ginocchiere di cuoio.

Lo storpiato mulatto, bastardo di un architetto portoghese e della sua schiava, così emblematicamente Brasiliano per le sue origini e per la sua dimestichezza col dolore, ci apparirà come il primo e il maggiore artista del Brasile, uno dei più grandi dell'Umanità.

Pampulha

A Pampulha conosceremo un altro artista che, senza essere della stessa portata del Aleijadinho, ci sorprenderà per la sua grandezza. Si chiama Candido Portinari. Nel 1943 ha dipinto grandi composizioni in ceramiche e affreschi e le quattordici stazioni della Via crucis, per la cappella São Francisco de Assis, costruita da Oscar Niemeyer.

Il suo imponente Francesco è lontanissimo dalle rappresentazioni tradizionali, sembra un profeta dell'Antico Testamento, mentre raramente l'umanità di Gesù e il suo dolore sono stati espressi con una tale forza, un tale rispetto, una tale bellezza che ne fa trasparire il divino mistero, il tutto in un linguaggio decisamente contemporaneo, nello stesso tempo forte e raffinato.

Brasilia

Ritroveremmo Niemeyer a Brasilia. Il suo sogno, diventato realtà ci farà riflettere sull'inquietante relazione tra bellezza urbanistica e potere forte - specie dittatoriale - e sulla precarietà dei futurismi.

Sì, Brasilia è bella, ma della bellezza di un teorema matematico, di un pensiero astratto, e le anticipazioni degli anni sessanta non essendosi avverate, la città sembra tornata da un futuro che non verrà mai.

Pensata e decisa da intelligenze e da sensibilità estetiche fuori del comune al servizio di una idea politica forte, ha i pregi e i difetti delle imprese faraoniche. C'è bellezza, c'è grandezza, c'è esaltazione della nazione e del popolo, ma dove si trova l'uomo ?

Brueghel

Ma tornando nel vecchio continente, andremo a Vienna a vedere i Brueghel. Ci farà bene. Resteremo due ore nella sala dei Brueghel, fino alla chiusura. Senza curarci del tempo sospeso. Non ci chiederemo perché questi quadri sono così belli e perché la contemplazione dell'uno richiama quella degli altri. Cercando di sapere dov'è la bellezza, ci sembrerà di trovare Dio.

Nel quadro della Salita al Calvario, vi sarà intorno al centro - occupato naturalmente dal Cristo - il triplice contrasto dei cavalieri rossi della morte, dei villici che non sapranno ciò che fanno e della natura che si prepara, che cingerà e annuncerà l'avvenimento. Ma vi sarà di più di questo, vi sarà la presenza di qualcosa di totale che trascenderà ogni dettaglio e che risuonerà nelle nostre anime e le trasporterà al di là.

Lo stesso per Novembre, La giornata buia, o I cacciatori nella neve. La natura dominerà in Novembre, e gli uomini non ne saranno coscienti, stringeranno le spalle sullo sfondo del paesaggio infinito. Ma il pittore padroneggerà la scena e le conferirà la bellezza. Bellezza degli uomini al lavoro, bellezza della natura minacciosa. Il conflitto dell'uomo e della natura sarà dominato dalla bellezza dell'insieme, cioè dall'amore che egli vi metterà a descriverlo. E sarà questo a rendere l'impressione d'infinito e di divino. Proveremo la stessa impressione per La giornata buia o I cacciatori nella neve. E la stessa ancora per La conversione di san Paolo. L'esercito passerà inconsapevole abbassando la testa, certuni si volgeranno scorgendo Paolo caduto da cavallo. Ma nessuno udirà la voce, come nella Scrittura. E nessuna nube in pia immagine ci rappresenterà Dio. Al contrario, sembrerà di aver lì davanti un albero ! Ma se guarderemo il complesso, la piccolezza di Paolo, lo stupore o l'indifferenza inconsapevole degli ingenui soldati, l'immensità del paesaggio austero, se penetreremo nel mistero di tutta questa bellezza, comprenderemo che sarà ancora una volta nello sguardo del pittore, nel suo lavoro, nella sua composizione, che si troverà la voce che dice a Paolo : " Saulo, Saulo, perché mi perseguiti ?" Comprenderemo meglio allora come l'arte deve elevare l'anima. Ma per spiegare questo, farlo comprendere, per descrivere un quadro, bisognerà saper guardare, meditare, volgersi verso Dio, ed essere poeti.

Nel momento in cui comprenderemo questo, allora il nostro sguardo sarà assimilato a quello del pittore, e ci sorprenderemo a mormorare anche noi : Chi sei tu, Signore ?

L'Agnello Mistico

Un custode aprirà e chiuderà continuamente il trittico per esporre anche il davanti delle porte. La cappella bianca e nera, umida, sepolcrale, triste come può esserlo il barocco quando manca di fantasia, si sarà svuotata dei suoi visitatori.

Saremo soli con il custode, berretto grigio e stemma argentato, capelli brizzolati, occhiali con montatura d'acciaio, ondeggiante nella sua uniforme antracite. Cesserà di manovrare le porte, avendo notato senza dubbio che non eravamo più nella cappella ma nel dipinto. Integrati da qualche parte nel paesaggio, tra i cori celesti, e contemplanti con gli occhi di Van Eyk la gloria dell'Agnello Mistico. I frontoni, il lastricato sapiente, le colonne doriche, il tendaggio polveroso che nascondeva la finestra ogivale saranno tutt'uno con il custode.

Saremo trasportati. E questa comunione estetica ci colmerà di una gioia rara, perché sentiremo che l'esperienza personale così sconvolgente sarà vissuta allo stesso modo e con la stessa intensità da tutti altri.

La Bella Vetrata

La vecchia cattedrale non ha messo una ruga. E il grigio le sta così bene ! Quando i bagliori della sera le danno qualche colore, essa non ha età. Da molto tempo, la città è cambiata. Le strade sono divenute strette, le case sconfortevoli, le mura illusorie, la fede incerta, e i credenti sono dispersi. Ma la cattedrale nella sua bellezza è intatta. Non deve niente al passato, alla storia. E' bella. Oggi.

E noi ci rannicchieremo nel suo seno materno perché è vergine. Intatta. Immacolata. Il mondo è molto invecchiato da allora. Troveremo che la sua tinta è cerosa e la lingua che mostra grigia. Ha goduto miserabilmente delle sue ricchezze e le sue guance sono cascanti. La cattedrale tiene nella sua bellezza. E tace. Non vuol arrecargli pena perché avevano festeggiato insieme i loro vent'anni.

Nella penombra scintilla ancora la Bella Vetrata. Di un'arte non ancora divenuta tecnica, ma ancora solo e alla perfezione ciò che deve essere. Opera sacra per eccellenza. Fede tagliata nel vetro colorato, incastonata nel piombo.

La cattedrale vergine ci sorriderà dolcemente. Riconosceremo il suo volto. E' il volto della nostra terra.

Notre-Dame di Parigi non è Notre-Dame di Chartres. Chartres è una chiesa dei campi. I costruttori avevano le mani callose e un fiordaliso negli occhi. Un popolo contadino, conciato dal sole delle messi abbondanti, ha laboriosamente costruito questo covone di pietre nel mezzo dei suoi campi dai riflessi dorati. Chartres non è un'opera d'arte.

Notre-Dame di Parigi è la cattedrale della capitale di un potente orgoglioso reame. Il padrone dell'opera ha assunto il più grande architetto e messo a sua disposizione un bilancio colossale. Tutto è stato fatto perché il monumento nazionale superasse quanto era stato costruito fin allora. Magnificenze e munificenze tutte reali. Cattedrale concepita per i fasti del potere, Notre-Dame di Parigi non ha la purezza rustica di Notre-Dame di Chartres, ma quale splendore in questo gotico già più umanistico che spirituale ! L'evoluzione verso la secolarizzazione è innescata, ma l'equilibrio è ancora sublime. Il potere credeva in Dio.

La Gioconda

Ci saranno centocinquanta persone davanti alla Gioconda. Con pazienza, giungeremo in prima fila. Saremo assorbiti da lei, più che da tutti gli altri quadri di Leonardo che la circondano, e che ovunque del resto sarebbero l'orgoglio di un museo. Perché ? Qual è la causa di questo fascino che Monna Lisa esercita ?

Contemplando la Gioconda con voi, mi ricorderò della riflessione di Pasquale in occasione di una sua sosta a Parigi. Pasquale è molto spiccio. Voleva vedere la Gioconda. Si recò al Louvre, chiese l'itinerario più diretto e, senza lasciarsi distrarre, percorse - nel senso che corse attraverso - il dedalo del Museo. Giunto davanti alla Gioconda, restò fisso un minuto o due, in un'intensa contemplazione muta, e lasciò cadere semplicemente : " Credo di aver compreso. E' molto più semplice di quanto si pensi. Monna Lisa è originaria della mia stessa regione, la Toscana. Conosco le donne del mio paese. Sono come Monna Lisa. Se ne infischiano di tutto. Monna Lisa sa di essere bella e se ne infischia completamente di ciò che si può pensare di lei ".

Vi racconterò questo aneddoto aggiungendo : Monna Lisa è una donna, una donna-donna. Più che seducente. Adorabile. Ma non è una dea. E' donna, e la sua vita porta al rispetto. Sa di essere bella. Si lascia guardare senza arrossire, senza il minimo imbarazzo. Non con la sicurezza dell'impudicizia, ma con quella dell'innocenza. Poiché lei non è imbarazzata di sapere che tu la guardi, la relazione e perfettamente pura. Se ne infischia completamente di ciò che pensi di lei perché sa di essere bella. Non ha bisogno di assumere un atteggiamento, di sorridere in un modo speciale. Non ha bisogno di blu intorno agli occhi. Lei è.

Mi avrete confidato tutto il dramma dell'immoralità del vostro ambiente, dell'amoralità e del decadimento del mondo in cui vivete, e vi renderete conto che può esistere un rapporto di questo tipo con una donna. Con Monna Lisa. E questa donna che è così donna, così bella, così sicura di sé, permetterà di rivivere l'esperienza di Chartres ai piedi della Bella Vetrata, immagine solo sacra e concepita per suscitare la preghiera.

In noi la bellezza sarà l'incontro di Dio. E Dio educherà il nostro occhio alla bellezza. Etica ed estetica non saranno più in opposizione, ma strettamente legate nel loro superamento comune. Solo la mediocrità richiederebbe una morale e una critica, ma noi siamo chiamati alla perfezione.

Beato Angelico

Ricompensa inaspettata della salita di un'alta scala di pietra grigia, L'Annunciazione del Beato Angelico ci aspetterà nel corridoio del monastero di San Marco, a Firenze. In questo monastero visse per tanti anni un uomo consacrato a Dio la cui vita fu dichiarata santa non perché si illustrò in opere di misericordia o per una ascesi particolare, o per il martirio come Savonarola, un suo confratello che visse nelle stesse mura nel tempo della giovinezza di Michelangelo, ma per la bellezza delle sue pitture. La sua carità fu eroica nel dare la bellezza con una purezza di cuore che ogni opera testimonia in modo inconfutabile.

Quest'uomo doveva avere gli occhi bruciati dalla contemplazione del cielo per non poter rappresentare altro che bontà e bellezza. Intenerisce vedere la sua incapacità di mostrare i carnefici senno come bravi ragazzoni dal viso angelico.

Il punto di vista del pittore è quello della contemplazione celeste, dove la passione di Cristo è vista come il più grande amore, nella luce gloriosa della risurrezione.

Seduti per terra nelle cellule vedremo Beato Angelico pregare e meditare dipingendo per aiutare la preghiera e la meditazione dei suoi confratelli. E rimarremo nella preghiera e nella meditazione dei più grandi misteri finché un guardiano non ci butterà fuori come pezzenti oppure svegliati dalla nostra estasi dai commenti stupidi vociferati da turisti infastiditi dall'apparente ripetizione dei soggetti illustrati dal santo artista.

Georges De La Tour

Il neonato. Niente di più semplice che questo quadro che andremo a vedere a Rennes. Una madre (Maria, senza dubbio) tiene in braccia un neonato. Una donna accanto a lei (probabilmente Elisabetta) tiene una candela nella mano, e con l'altra mano ne nasconde il riflesso. Tre personaggio perciò, una candela nascosta da una mano e uno sfondo rigorosamente nero. Niente di più spoglio che questo quadro, però attirerà lo sguardo in modo incredibile. Elisabetta, che sembra partecipare alla scena solo per illuminarla e metterla in valore, è quasi totalmente nell'ombra. il gesto della mano che permette di nascondere il riflesso della candela ci inviterà a girare lo sguardo verso Maria e il bambino. Infatti gli occhi si gireranno irresistibilmente verso Maria. Niente di sentimentale nell'atteggiamento di Maria. Tiene il suo bambino con amore, ma rispettosamente, come un essere sacro. Non guarda direttamente il bambino, guarda un po' al di là, nello stesso tempo sorridente e triste, persa in una meditazione che è impossibile da descrivere. Perché non potremo impigliarci ad un artificio di composizione o di colore che spiegherebbe qualcosa. Ci sentiremo sorpassati e nello stesso tempo attirati, come risucchiati verso l'alto.

Il Giudizio universale

Per voi sarà difficile capire quanto provai quando vidi per la prima volta la Capella Sistina ristaurata. Quale choc nel scoprire che un'opera che da quasi quarant'anni faceva parte del mio museo interiore non era come la conoscevo e mi aveva accompagnato in una vita intera ! Bisognava farsi all'evvidenza : Michelangelo era un pittore dalla tavolozza ricchissima e di una vivacità incredibile. Se anticamente ero stato colpito dalla scultoreità della sua pittura quasi monocrome ma di una forza senza pari, adesso che lo stratto di fumo e di polvere era tolto rivelando la natura vera del capolavoro, ero sbalordito dalla modernità dei colori, dall'arditezza degli accostamenti di tinte sgargianti.

Ma quello che ci accomunerà sarà capire che l'esaltazione della bellezza del corpo umano, per Michelangelo era testimonianza di quella di Dio creatore, e del Risorto ricreatore. E come ci sembreranno meschine e ipocrite le accuse di pornografia e assurde le brachette imposte alla bellezza !

La Trinità di Andrej Rublëv

Aspettando di poter recarci insieme a Mosca - ma dovremo farlo un giorno !-parleremo di un amico di gioventù e - al pari del Beato Angelico - di un protettore per tutta la vita : Santo Andrej Rublëv.

Quando ero bambino, sentivo contemporaneamente due attrattive che sembravano inconciliabili. Mi sentivo chiamato parimenti alla "santità" e ad essere artista. In quel tempo il secolare malinteso tra la Chiesa e il mondo dell'arte, che Paolo VI deplorava amaramente e che egli cerco di sanare, era una sorta di evidenza. Arte e santità, arte e vita cristiana, erano in opposizione irriducibile. Fu l'incontro con il Beato Angelico che mi rassicurò : almeno lui, in quel lontano passato aveva sentito e portato a termine la stessa vocazione mia !

Qualche anno dopo incontro Andrej Rublëv, e fu una esperienza sconvolgente. Era in luglio 1965, l'Unione Sovietica per la prima volta tentava una timida apertura verso i stranieri, in quanto potenziali turisti, portatori di preziosissime divise. Paolo VI ( quale vero profeta che era questo grande uomo ) aveva espresso il desiderio che ci fossero anche dei credenti che fossero turisti in un modo non consumistico.

Ebbi la fortuna di partecipare ad una delle prime comitive animate da questo spirito di rispetto e di dialogo. Non è oggi il momento di raccontare questo viaggio, ma solo un episodio : la visita alla Galleria Tret'jakov. Questo museo, uno dei più importanti di Mosca, conserva grandi collezioni di pittura russa, in particolare mostruose opere del così detto "Realismo socialista" che dovemmo guardare ad una ad una per non essere maleducati, ma era eroismo puro, lo confesso. Chi sa dove sono finiti adesso questi immortali capolavori ?

Poi improvvisamente, entriamo nel settore delle icone, e sono subito affascinato dalla visione della Trinità. Ero poco informato delle icone, non conoscevo neanche il nome di Rublëv, ma come tutti avevo visto delle riproduzioni della sua Trinità. Però quello che mi affascinava aveva poco da che fare colle riproduzioni che conoscevo. La sala era moto ampia e coperta di icone, più belle l'una dell'altra, ma una forza irresistibile mi attirava verso la Trinità, come una meteorite è catturata lascia la sua traiettoria per cadere e bruciare in una scia di luce nel cielo del pianeta.

L'icona, di dimensioni rispettabili (142x114), era disposta vicina ad una finestra su una piccola parete di legno. Davanti, a pochi centimetri, c'era una panchina. Mi sedete. Avrei potuto toccarla.

Qui una parola s'impone : contemplazione. Non ho guardato, ho contemplato e il tempo è volato. Non ho capito niente dei tanti simboli contraddittori che i specialisti trovano e spiegano con stupenda sicurezza. La stessa tematica della Trinità del Antico Testamento non mi era molto familiare.

Quando dico che contemplavo, non voglio perciò che ho meditato il mistero trinitario, oppure che sono entrato nella simbologia particolare del mondo russo. Non era una contemplazione teologica, ma una visione artistica. Era la bellezza di questa pittura che mi ha sconvolto. La sua "modernità", a cinque secoli di distanza ; la libertà rivoluzionaria - altro che realismo socialista ! - di Andrej Rublëv nel disegno purissimo e nel uso di colori di una vivacità incredibile.

Tutto questo lo osservavo tranquillamente. Da pittore, un po' geloso della perfezione raggiunta da un maestro.

Ero sbalordito dalla diversità di questa icona in confronto a tutte le altre che conoscevo. Mi sembrava che qui ogni cannone era superato, ogni conformismo - e si sa quanto l'arte dell'icona può peccare per il conformismo elevato a dogma di perfezione assoluta.

Ero sveglio, lucido, ma nello stesso tempo succedeva in me qualcosa di indefinibile. Una trasformazione del mio essere al contatto con questa opera. In qualche modo ero entrato dentro l'icona, che mi avvolgeva tutto dalla sua bellezza. E reciprocamente essa era entrata in me al punto di fare ancora, a trenta anni di distanza, parte di me.

Infatti trenta anni dopo averla vista, é sempre viva in me, al punto di farmi provare un senso strano di disgusto quando vedo una delle sue innumerevoli riproduzioni che sono, a confronto coll'immagine che porto dentro di me, come una maschera funebre, senza anima.

Probabilmente tanti hanno provato qualcosa di simile a quello che provavo nella Galleria Tret'jakov, perché l'icona della Trinità di Andrej Rublëv é stata definita nel 1551 dal Concilio dei Cento Capitoli " l'icona delle icone ".

Ma il favore generale non giovò al capolavoro di Rublëv, presto annerito dal fumo, ridipinto, e devotamente coperto da uno prezioso quanto assurdo rivestimento d'oro e d'argento, lavorato a sbalzo, che lasciava intravedere solo i visi, le mani, e i piedi degli angeli, tra margherite e pietre fine. L'elevazione dell'opera d'arte allo status di icona miracolosa, simbolo di una nazione, aveva annientato il vero miracolo della bellezza pura, della contemplazione celestiale, barattandole colle giaculatorie, le fiaccole, e il fumo dell'incenso.

Ma le altre sue opere furono dimenticate, perse o distrutte, fino alla riscoperta ed il restauro nella loro primitiva bellezza, operati lungo questo secolo, di un certo numero di esse - piccolo purtroppo, ma sufficiente per intuire l'eccezionale grandezza del geniale monaco.

Tra queste opere miracolosamente ritrovate, primeggia il viso del Salvatore, unica parte salvata di una grande icona (158x106), che deve di non essere stata bruciata alla qualità della tavola di legno sulla quale era stata dipinta. Infatti fu ritrovata nel 1918 in una legnaia, dove, con altri due capolavori di Rublëv, fungeva da pavimento !

Questa icona miracolata che presenta il Salvatore insieme come Signore e come prototipo dell'umanità trasfigurata é il corollario perfetto alla Trinità. Basterebbero queste due icone per potere meditare l'intero mistero cristiano.

Si dice che la Russia cristiana è nata ortodossa, perché la bellezza della liturgia bizantina aveva convinto il principe di Kiev, mille anni fa, della verità di questa tradizione. Andrej Rublëv é certamente uno dei testimoni più convincenti di una caratteristica di Dio, importante per l'ortodossia quanto la sua Onnipotenza o la sua Misericordia, voglio dire la sua Bellezza. Per questa ragione il Consiglio della Chiesa ortodossa russa, svoltosi nella Lavra della Trinità di san Sergio l'8-9 giugno 1988, ha annoverato Andrej Rublëv alla schiera dei santi e ha stabilito la sua memoria il 17 luglio. Negli Atti del Concilio Rublëv è designato come " famoso iconografico, autore di molte icone, ora celebrato in tutto il mondo " e insieme come " asceta di vita santa, che profuse largamente il suo amore cristiano al prossimo. "

Ero rimasto per più di una mezz'ora, in silenzio, schiantato sulla panchina di legno, incurante degli altri visitatori, dimentico della nostra comitiva, e di Ludmilla, la nostra bella ed intelligente guida, quando l'icona della Trinità finalmente mi liberò del suo incantesimo. Senza guardare nessuno degli altri capolavori - neanche purtroppo quelli di Rublëv - percorsi, correndo, le sale della Galleria Tret'jakov, in ricerca del gruppo che ritrovò intorno all'icona celeberrima della Madre di Dio della tenerezza di Vladimir. Ludmilla, con gli occhi un po' lucidi, spiegava il palladio dello stato russo, l'icona venerata come taumaturgica.

Discretamente mi scusai del mio ritardo, causato dalla Trinità di Rublëv. " La capisco bene ! " - mi rispose, sorridendo, e, lasciando il reparto delle icone, ripiombammo di colpo nel realismo socialista !

I Quintetti per archi di Mozart

La bellezza è una ricompensa, non si lascia sempre afferrare al primo tentativo di abbracciarla. Mi ricordo che quando il mio padre mi fece ascoltare per la prima volta i quintetti per archi di Mozart, fui sconcertato da questa musica così poco piacevole e pertanto lontana di quello che immaginavo dell'arte di un musicista che spiccava per la gaiezza e la spensieratezza. Ma i dischi costavano molto, e quasi per sfida mi sono forzato ad ascoltarli. Ma lo sforzo non fu vano e i quintetti per archi di Mozart sono diventati i dischi preferiti della mia giovinezza.

Arvo Pärt

E approfittando di questo momento di interesse per la musica, vi porterò in una chiesa romanica per sentire un concerto di Arvo Pärt. E questa musica vi ridarà la speranza che si possa ancora fare musica dopo il campo di Terezin e il Gulag, perché non è per niente compiaciuta, ma richiede una totale castità dell'udito. Arvo Pärt dice della sua musica che è fatta di silenzi incorniciati da suoni. Sembra un modo di dire, ma è proprio vero. La musicalità dei silenzi di Arvo Pärt è sconvolgente, crea nell'uditore una qualità di ascolto che sconfina nella preghiera e nella contemplazione.

L'Uomo che cammina

A Zurigo andremo al museo d'arte moderna, uno dei più ricchi del mondo, e se ci riuscirà a malapena a non essere coinvolti dalla così detta sindrome di Stendhal, cioè se non avremo un'indigestione di bellezza al contatto con i numerosi impressionisti, con un autoritratto di Van Gogh, con I Ninfea Monet, con la schiacciante Porta del Paradiso di Rodin, con i Klee, i Chagall, i Kandinskij, i Mondrian, in somma con tutta l'arte moderna testimoniata da opere di primo piano, allora potremo incontrare L'Uomo che cammina di Giacometti. Una delle opere più rappresentative del secolo probabilmente perché una delle poche che riesce a dirci qualcosa dell'uomo in piedi, anzi che cammina, oltre ai campi di sterminio, oltre alle ideologie e alla morte di Dio.

I meli di Mondrian

Approfitteremo senz'altro della nostra visita al museo d'arte moderna di Zurigo per guardare attentamente i Mondrian. Tre o quattro, non di più, ma di grandissimo interesse. E ci lascerà sconvolti il dramma mentale e sensibile che dovette passare quel grande pittore per cambiare così radicalmente la sua ispirazione e la sua estetica. Si potrà seguire l'evoluzione dalla figurazione del Melo - che però non si trova a Zurigo, ma già nel museo immaginario - alle composizioni rigorosamente geometriche che per tutto il secolo hanno ispirato architetti e graffisti, condizionando in modo forte e quasi esclusivo il nostro ambiente.

Da quasi un secolo la fotografia, caricandosi dalla rappresentazione fedele e precisa della realtà di paro passo con i suoi progressi tecnici, toglieva alle arti grafiche quello che sembrava la loro missione e i loro privilegio. A dire vero per tanto tempo la fotografia aveva avuto come unica ambizione quella di imitare la pittura che conservava il suo prestigio di arte maggiore e numerosi piccoli maestri avevano abbandonato pennelli e cavalletti a vantaggio delle camere nere e delle lastre fotografiche che gli procuravano a poco prezzo dei quadri assomiglianti in misura massima.

Con l'invenzione di mezzi di riproduzione tipografica delle fotografie si vide quasi sparire il florido artigianato dell'incisione e della litografia.

Il disegno e la pittura potevano sembrare votati a una totale sparizione in un mondo di tecnica e di efficienza giacché l'ideale della rappresentazione perfetta della realtà era stato raggiunto con altre strade. Invece non fu così, anzi lungi di togliere la loro ragione d'essere alle arti grafiche e alla pittura la fotografia liberò esse dall'ipoteca che da secoli pesava su di loro, rendendole alla loro vera missione. Gli artisti capirono che non avevano niente da guadagnare nel rimanere su un terreno che non era veramente il loro e rinunciarono a una figurazione pedestremente realistica, apprendo nuovi orizzonti per la maggior parte ancora completamente inesplorati dalle generazioni precedenti.

Con Piet Mondrian la pittura entra progressivamente in quella che chiamiamo astrazione, che fu durante la prima metà del nostro secolo una tendenza così forte da sembrare per un periodo soppiantare totalmente l'arte tradizionale che ormai per opposizione si chiamava figurativa, visto il successo dell'arte astratta della quale Mondrian fu il primo e parossistico rappresentante.

Alcuni meli, o, meglio, lo stesso melo dipinto diverse volte di seguito, tracciano le tappe dell'astrazione. Quella che all'origine era solo una rappresentazione fedele si interiorizza, le linee di forza appaiono, una struttura, una composizione nascono da uno spogliamento, da un'ascesi, L'astrazione non è pullulamento come il primo cubismo che era un tentativo di rappresentare simultaneamente diversi aspetti della stessa realtà per darne conto con più informazioni. Non, Mondrian penetra la realtà nelle sue fibre, nelle sue leggi, nella sua armonia profonda e primordiale. Assomiglia ad un'inchiesta fisica ed è probabilmente una ricerca metafisica. Presto il melo non è più riconoscibile e Piet Mondrian non tornerà mai indietro ma continuerà indefinitamente a penetrare nella contemplazione di una bellezza che ha percepita, scoperta, svelata, analizzando un quadro che rappresentava un melo, poi analizzando il quadro nato da questa contemplazione, e così via.

E il suo sguardo non si è mai staccato da questa visione, attingendovi per tutto la sua vita l'ispirazione della sua opera uniforme e varia all'infinito.

Ma quello che ci stupirà probabilmente maggiormente sarà scoprire grazie a Mondrian un criterio di bellezza : il dolore. Le opere degli epigoni di Mondrian che coprono le mura del museo di Zurigo, in qualche modo dipinte meglio di quelle di Mondrian e perciò più perfette, non portano la carica emotiva legata alla sofferenza dell'ascesi che il pittore olandese dovete passare. Ci sarà chiarissimo quando un'opera ha chiesto al suo creatore il dolore del parto : solo quella è viva, le altre possono essere piacevoli quanto vogliono, sono opere morte.

Il Crocifisso di Cimabue

A Firenze, vinceremo la nostra antipatia per le opere troppo strumentalizzate dal sentimentalismo volgare e andremo a Santa Croce per vedere Il Crocifisso di Cimabue. Simbolo della stupidità di autorità che lasciarono coscientemente distruggere un patrimonio artistico mondiale. Ma appunto non sarà quel ricordo assurdo, né l'emozione di vedere un opera martoriata, pertanto avvicinata all'estetica di questo secolo, che ci farà introdurre Il Crocifisso nel nostro Museo mentale, ma l'esperienza, contemplando i ruderi del capolavoro, di poterlo ricostruire mentalmente con i pochi elementi salvati : un occhio, la bocca, le maestose linee curve del corpo, una mano. E se un'alluvione e fiotti di fango lo hanno sfigurato e reso più brutto di un verme della terra, cercando di guardarlo con gli occhi di Cimabue, non mancherà niente all'icona del crocefisso più bello che sofferente, quale lo vede il Padre nel Paradiso.

Nascita di Venere

Agli Uffizi ci vorrà un grande coraggio per non fermarci davanti a tanti capolavori esposti in uno dei più belli musei del Mondo. Ma inflessibili andremo direttamente nella sala di Botticelli per guardare La nascita di Venere. E ci meraviglierà il carattere sacro di quella pittura pagana, mentre le opere religiose del pittore esposte nella stessa sala ci sembreranno profane. La castità di questa Venere, vestita della sua sola capigliatura aurea, è tutta interiore, mentre la così detta purezza delle madonne è tutta esteriore e fredda.

Il giovane e geniale pittore rinascimentale, come i suoi maestri greci, era stato capace di mostrare la divinità nella bellezza del corpo umano, mentre il convertito - più o meno sincero - a criteri moralistici mette in scena soggetti religiosi con grande maestria stilistica ma senza profondità spirituale e la bellezza invece di essere incarnazione della divinità nell'umano diviene angelismo, mera disincarnazione.

Il Centauro morente

Prenderemo un giorno appuntamento con la Bellezza, la Bellezza con la B grande, non perché riservata ad una élite di intenditori chiusi nella loro conoscenza estetica, ma, al contrario, a portata di ogni persona col cuore e con gli occhi aperti alla profondità dell'anima umana. E questi sono più numerosi di quanto si pensi, ma purtroppo tante volte sono inibiti davanti alle opere d'arte.

E non mi si dica che ci vuole una formazione particolare : Mi ricordo che avevo solo sette anni quando la mia mamma mi portò a Lione nel Museo d'Arte moderna della Città, e che, in mezzo a tante opere che non mi hanno lasciato nessuno ricordo, fui colpito dal Eracle arciere, che si può vedere anche alla Galleria nazionale d'arte moderna di Roma. Non avevo certo alcuna preparazione, era il primo Museo che visitavo, avevo sette anni - giusto l'età della ragione - e Bourdelle entrò nella mia anima provocandoci un terremoto ancora vibrante a distanza di quasi cinquant'anni.

Da bambino non avrei potuto dire a parole perché questa scultura mi affascinava. Oggi potrei tentare di dare una spiegazione, ma sarebbe sempre meno convincente, anche per me stesso, dal fatto che dal lontano 1947, quando lo vidi per la prima volta, l'Eracle arciere vive nei miei spazzi interiori e costituisce il primo pezzo del mio museo immaginario.

Mi piace l'opinione di un contemporaneo di Bourdelle : " Davanti a questo ammirevole Eracle, non c'è bisogno di torturarsi l'anima per capire. " Corrisponde precisamente a quello che sto dicendo : la più grande arte può permettersi di essere anche la più semplice e la più accessibile ai semplici, fossero bambini di sette anni.

Perché avere paura di Bourdelle ? Era un uomo semplice, figlio di un povero falegname e nipote di un capraio. Così povero che dovette incominciare a lavorare nella bottega del padre a solo tredici anni. E' proprio sotto la guida del suo padre che si perfeziona nel mestiere di scultore su legno, mentre segue corsi alla Scuola Municipale di Disegno di Montauban, sua città nativa.

Ma il giovane Emile-Antoine è notato da maggiorenti locali e incoraggiato ad andare a Toulouse e poi a Parigi per studiare alla Scuola delle belle Arti. A Parigi vive in una estrema povertà perché lascia ai genitori la quasi totalità della borsa di studi ricevuta dalle città di Toulouse e di Montauban.

Sì, Emile-Antoine è semplice e generoso. E questo si può facilmente vedere nelle sue opere. Chi non vorrebbe incontrare, e farsi amico, un uomo semplice e generoso ? Uno che cerca una prospettiva onesta e disinteressata sugli affari del Mondo, testimonianze di vita umana tesa verso un più dell'uomo, e, prima di tutto, un invito ad una spiritualità aperta a tutti, perché non tenta questa avventura, percorrendo con artisti come Bourdelle un pezzo della strada che porta dalla materia allo spirito.

E' di Bourdelle la frase : " L'arte é l'uomo che lega la materia allo spirito. " Certo per questo dobbiamo farci uno con lui, accoglierlo nella nostra mente, nel nostro cuore. L'arte vera non da le sue perle ai porci e le sue margherite ai cani, non vuole essere calpestato e sbranato. L'arte vera è impenetrabile ai cinici e ai grossolani. Ci vuole rispetto, atteggiamento di umile benevolenza, allontanamento drastico di ogni pregiudizio. Ci vuole un cuore puro per vedere il dio nascosto nell'opera, soprattutto quando quell'opera è apparentemente profana come quella di Bourdelle.

Nell'opera di Bourdelle non si trova nessuna tematica direttamente religiosa, se non un San Sebastiano, più eroe pagano che martire cristiano. Infatti san Sebastiano diviene sotto le mani giovanili di Bourdelle, studente a Toulouse, una specie di Prometeo incatenato gridando vendetta ai dei.

Bourdelle, figlio di un simpatizzante della Commune di Parigi, perseguitato per le sue idee progressiste, non doveva presumibilmente essere un parrocchiano particolarmente pio e fedele alle pratiche religiosi.

La sua arte non è religiosa, ma - se mi si concede questa distinzione, per me essenziale - è decisamente sacra. Pagana quanto si vuole, ma sacra, vale a dire elevante l'anima verso la parte più eccelsa di essa. E' un arte che per la magia della bellezza - come dice Bourdelle stesso - lega indissolubilmente la materia allo spirito, e, se assistiamo magari alla lotta tra i due, in fine è lo spirito che tira su la materia, oppure la materia che si tira su e s'india.

E questo è proprio il messaggio luminosissimo del Centauro morente altro capolavoro.

Probabilmente non succederà a tutti quello che mi è successo quando ho visto per la prima volta questa monumentale scultura (quasi tre metri di altezza !) So bene che nel campo della bellezza ognuno deve tracciare la propria strada e che raramente due percorrono la stessa nello stesso momento - quando succede si sperimenta una qualità tutta particolare della gioia mentale di un sentire e pensare in unità. Posso dare la mia esperienza solo come indicativa di un metodo per conoscere le gioie nuove che la bellezza da a chi con umile coraggio si avvicina a lei.

A prima vista, il neoclassicismo del Centauro morente mi disturba e mi respinge. Ma so troppo bene da una lunga comunella con la bellezza che non bisogna fidarsi della prima vista che non può per definizione contenere quello che di nuovo un capolavoro porta sempre. Il nuovo è sempre disturbante, sconfortevole. (Ma può essere nuova un'opera scolpita ottant'anni fa ? Certo, e non solo la prima volta che si vede, ma se è veramente bella, contiene un mistero che rimarrà sempre in parte incompreso, e perciò sempre nuovo.)

Guardo di nuovo e rimango affascinato, si dalla perfezione stilistica, dalla composizione stupenda, ma molto di più dalla spiritualità che trasuda da questo corpo contratto e convulso. Si questo giovane Centauro morente sprigiona un infinito dolore di non potere essere solo uomo, ma di sentire la parte animale di se affogata nel fango, mentre il suo torso d'uomo sembra quasi nel punto di staccarsi nello sforzo sovrumano si salire verso il cielo.

Si, è diventato uomo, la sua musica - tiene in mano una lira - il suo amore, l'hanno umanizzato, ma questo sforzo è stato fatale e sarà uomo nella morte.

Peraltro l'espressione sua è dolce e piena di pace. Meritava morire, se si muore da uomo !

In questo momento ho sotto gli occhi una foto del Centauro morente e mi è quasi difficile ricordarmi queste impressioni che scrivo, perché non ritrovo in questa foto quello che ho vissuto davanti all'opera stessa. Devo raccogliermi in me stesso e guardare l'impronta lasciata nella mia mente e nel mio cuore (se tant'è che si possa fare questa distinzione !) per ritrovare il mio Centauro morente, quello che ormai vive sempre in me, perché fa parte di me.

Anche questa considerazione mi pare significativa : quando si é fatto un esperienza estetica, questa è più reale dalle riproduzioni dell'opera, e in qualche modo dall'opera stessa, nel senso che mi è successo di essere quasi deluso rivedendo dopo anni un opera a me cara (potrebbe essere il caso oggi di Eracle arciere che ho guardato con grande piacere ma senza particolare commozione.) Non si può esigere da un opera d'arte che produca su altri lo stesso effetto provocato su di noi, e neanche automaticamente che rifaccia su di noi lo stesso effetto. Quando abbiamo fatto una vera esperienza estetica, penso che abbiamo incontrato in quell'opera un immagine - quasi un sacramento - di una realtà molto più profonda che essa porta in se e che collocata in noi rivela a noi stessi messaggi importantissimi. Quello che da un carattere sacro alle Icone, perché non potrebbe essere vero anche per tante opere, dette profane, ma che per la grazia della bellezza portano anche loro qualcosa della divinità ?

Qui si tratta di esperienza più che di teoria, e quanti hanno fatto l'esperienza di essere cambiati da un opera d'arte comprenderanno quello che voglio dire. Agli altri auguro di fare questa esperienza - perché non ? - davanti al Centauro morente di Bourdelle.

I Corvi di Van Gogh

Sabato freddo. Amsterdam avvolta in una bruma appiccicosa. Cielo grigio, case nere e bianche, canali indefinibili, snack che manderanno effluvi di patatine fritte e hot dog sfatti. Americano gioviale che citerà Hugo nel testo originale. Canali olezzanti, patatine fritte, snack neri e bianchi, cielo indefinibile, patatine sfatte, hot dog grassi. Canali neri e bianchi. Amsterdam appiccicosa. Infine Museo Van Gogh. Cemento arido, vetri trasparenti moquettes calde, silenzio vellutato, riproduzioni che sanno d'inchiostro fresco, buvette chiassosa.

Tu parlerai attraverso i tuoi quadri. Parlavi nella lingua che scelsi. Agl'inizi non avevi molto vocabolario, sebbene la tua vita fosse non meno intensa che in seguito. Nell'ultimo quadro, è l'esplosione. Giungi ad esprimerti così bene che puoi accontentarti di una parola. Comprende tutto. Non hai più bisogno di grafismi o di alcun accompagnamento. Le strade, il cielo. Il sole copre la terra di spighe mature. Il cielo è blu. I corvi, neri, lasciano il campo libero. Anche se non esistesse che un capolavoro, sarebbe insperato. Una tela come quella doveva essere dipinta. Ma la più bella è la penultima. Così semplice. Non l'abbagliamento dei Girasoli, non l'umanesimo cosmico della Camera, bensì la serenità miracolosa di qualcuno che conosce già l'al di là e si appresta a tuffarvisi, come nelle braccia di una madre. Un'aspirazione vertiginosa. La morte. La morte felice. La morte bella, attraente. In primo piano, qualche goccia di sangue. Gioia grave. Seria. Serena.

In un certo senso, e quasi meglio che ti sia suicidato, così tutta la tua pittura ha la stessa intensità. Rischiavi di divenire insipido. Oso quasi dire, fortunati coloro che si suicidano.

Certuni dicono che sei divenuto sempre più folle, quando è evidente che nella tua pittura si trova sempre più pace. Parecchie volte poco c'è mancato che divenissi un grande pittore. Ogni volta ti sei ripreso e hai ricominciato da zero. Come non sapessi più dipingere. Dovevi uscire dall'imitazione della natura, dall'imitazione sia pure perfetta dei tuoi contemporanei, e anche dall'imitazione di te stesso, per lanciare un grido che nessuno poteva ancora ascoltare perché era inintelligibile. Avresti potuto essere un banale pittore sociale e religioso, la tua pittura è divenuta laica e spirituale.

Era la mia tentazione. Ero appassionato dell'uomo. Lavoravo come catechista nelle miniere. Ho incontrato la sofferenza e la miseria. Rispettavo l'uomo. Cercavo ciò che aveva di meglio. La mia pittura avrebbe potuto divenire populista e pia. Ma avevo in me un appello più forte, un appello al bello. Una forza in me che mi diceva di dipingere.

In tutti i tuoi quadri, anche nei meno buoni, si vede che eri puro. Non vi si scorge mai compiacimento. Non il minimo erotismo. Eri innocente, come un bambino.

Sono andato a vivere in Provenza, la patria del Ravi, dell'Estasiato, dello stupito, dell'innocente, l'uomo semplice, indotto, spesso burlato bonariamente dai suoi concittadini.

Non odio il mondo. Amo il mondo. So che è nero e sporco, ma non posso non dipingerlo come lo vedo, bagnato di sole purificatore. Il nero è azzurro, o violetto. I fiori afferrano ancora la luce. Equilibrio. Terra e cielo. Ma il cielo è nascosto. Si vede la terra fra i tronchi blu. Il cielo s'è riversato sulla terra. Copre i meli di un fremito rosa e bianco.

C'erano volte in cui tutto era dorato dinanzi ai miei occhi. La mia testa ronzava. Avevo male ad amar tanto. Mi sarei sdraiato per terra per baciarla, per fecondarla. La luce scaturiva dalle zolle in spighe mature. Si cristallizzava in chiese gotiche. Copriva i muri di un fine strato impalpabile. E il cielo nero a forza di essere blu. Freddo e caldo. Gli alberi che mi proteggevano dall'insolazione, ma ergevano una barriera tra il sole e me. Talvolta ero ebbro di luce. Non ero abbastanza forte per bere tanto sole. Tornavo nella mia camera con le imposte chiuse, ma tutto l'universo era presente con la Terra, la luce, il cielo, gli alberi, i campi coltivati. Gli oggetti più familiari, il catino, la brocca e i flaconi sulla tavola si perdevano nel cielo azzurro del muro.

Ero meravigliato dal mondo fino ad apparire folle agli occhi del mondo e ai miei propri occhi. Ero ammalato d'innocenza. Incapace di vivere in un mondo normale. Colpito da incomunicabilità totale. Folle. Sempre di più. Sempre di più meravigliato dalla bellezza inafferrabile, al di là, al di là delle gocce di sangue, più lontano del campo di colza verde-giallo che andava verso il blu, là dov'era più profondo.

Arte Sacerdozio

Uscendo dal Museo Van Gogh potrò dirvi in confidenza : Finora ho pensato che l'opera d'arte perfetta era l'eucaristia. Al sommo della sua vita umana, un artista avrebbe potuto infine, divenendo prete, raggiungere il capolavoro al di là di tutto, l'eucaristia. Mi par di comprendere questa sera che l'opera d'arte è già un'eucaristia imperfetta. Dio nutrimento dell'uomo. Dacci oggi la parte di bellezza di cui abbiamo bisogno per vivere. Sulla terra a immagine del cielo. In cielo, ogni atto umano sarà un dono di Dio all'altro, l'eucaristia. Ma già, al cospetto di opere come quelle di Van Gogh, o davanti all'Agnello Mistico, sono come davanti ad un tabernacolo.

La materia lavorata dall'artista mette in comunione, ma la comunione non è con la materia, è con Dio. Davanti alla Trinità di Rublëv era lo stesso. Credevo di fare un'esperienza estetica sublime. In effetti ero preso, soggiogato, assorbito da questa icona, ma al di là di questa icona da... da cosa ? da chi ? E sarei restato tutta la mia vita, se ciò fosse stato possibile, come sarei restato nel deserto, come avrei eternizzato certi altri momenti della mia vita che sono tutti momenti di Dio.

La lettera di Vermeer

A due passi del Museo Van Gogh nel Rijs Museum, Vermeer è nel mare di perfezioni inutili della pittura dei Paesi Bassi un minuscolo arcipelago, un insieme di quattro piccole pitture sublimi - diciamo tre - tra le quali due veri capolavori : La versatrice di late e La lettera d'amore.

Quale era l'Ideale di Vermeer ? Come i suoi colleghi cercava anche lui di raggiungere la rappresentazione esatta e perfetta della realtà ? Meglio di chiunque ha raggiunto questa meta. Ma se avesse fato solo questo non ci toccherebbe così tanto. Non, le sue piccole composizioni mantengono il loro sconcertante segreto. Al di là del loro apparente realismo il mistero perdura. Una atmosfera, una domanda, una tragedia magari, o l'evocare sottile di un sentimento, d'un raffinato erotismo, d'una sorpresa dell'amore.

La lettera proviene da un amante, da uno sposo in viaggio nei mari del sud, da un figlio universitario o da una figli in convento ? Lo spettatore che osserva da dietro la porta socchiusa e al quale ci identifichiamo, è il marito geloso, un bambino curioso, un amante scartato, un mezzano discreto, o semplicemente il postino che beve una birra fresca ?

Alle stesse cimase sono appese altri quadri dai soggetti vicini e di fattura simile, ma solo Vermeer accattiva la nostra attenzione e lascia una traccia profonda nel ricordo. Solo lui entra nel Museo mentale. E non è solo perché la sua tecnica sarebbe più magistrale, ma piuttosto perché si fa dimenticare.

Non ammiriamo il tour de force, la performance della rappresentazione realistica, ma precisamente siamo presi da qualcosa d'altro e vediamo i particolari realistici solo quando entriamo nella scena per investigare e capire se un qualche indizio ci potrebbe dare la chiave dell'enigma. Solo allora notiamo nella penombra la partitura negligentemente posata su una sedia, i sandali all'ingresso della stanza e la scopa contro lo stipite, lasciato dalla serva quando il postino ha suonato. Tutti i particolari così veri, così sicuri, si mettono a fuoco mentre l'occhio centellina la scena che osserva lungamente. Le teste da leone e i chiodi di rame alla spalliera della sedia, i riflessi nelle sete, l'opacità di una cuffia di lino, la grana croccante di una crosta di pane acanto a quella luccicante di una brocca di ceramica, nulla manca ma niente è lì per provocare la sorpresa. E' la nostra sorpresa che ci fa guardare con maggiore attenzione, e ci fa vedere particolari sempre più sottili, e ce li fa ricordare.

Vermeer ha saputo esercitare il nostro occhio, non abbagliarlo. Non ingannarlo, non é trompe-l'oeil, non è gioco di prestigio, Vermeer ci provoca a guardare, a osservare. Ci fa sognare, creare storie. Libera la nostra fantasia. Ci da talento.

Le Thoronet

Quanti altri viaggi vorremo fare insieme, in tutte le parti del mondo, per arricchire il nostro museo mentale. Chi sa ? magari un'altra volta con un libro interamente consacrato a questo. Per oggi concludiamo con un giro nel sud della Francia. Partiremo in bicicletta per l'abbazia di Thoronet presso Lorgues. Essendo riusciti ad impietosire il guardiano, potremo alloggiare sul posto e vivere quasi ventiquattr'ore tra quelle mura che i monaci dovettero abbandonare, ma che restano abitate dalla loro mistica presenza.

L'abbazia cistercense è stata costruita con pietre squadrate in un calcare duro, connesse al vivo senza traccia di cemento da monaci che hanno seguito san Bernardo di Chiaravalle nella sua riforma dell'Ordine benedettino di Cluny. L'architettura è ad immagine della loro spiritualista virile, rurale, spoglia di ogni fioritura estetica, intransigente, quasi crudele. Non una sola decorazione, ma dei capitelli dalle linee pure, delle invetriate bianche e non policrome come quelle di cui la moda e il genio del tempo moltiplicavano i capolavori.

I bagliori del sole già tramontato dietro le colline circonderanno l'umile conca dove si annida il monastero. Quando, all'ora dei vespri, penetreremo lungo quella navata di cui l'invetriata riempirà il volume con un crepuscolo dalle ombre glauche, saremo colpiti dal rosa quasi fluorescente del chiostro che si scorgerà dalla porta laterale. Commento architettonico del versetto che i monaci cantavano : " Per l'uomo retto una luce brilla in seno alle tenebre ".

Al mattutino, il sole spruzzerà d'oro la volta a tutto sesto e i muri del dormitorio. L'abbazia canterà allora la gioia di vivere e chiamerà al lavoro.

Sul filo delle ore, la chiesa muterà d'umore, dalla gioia semplice delle lodi alla serenità della compieta, passando per l'esuberante rendimento di gloria della mattina in cui si celebrava la solenne messa conventuale.

Il chiostro inciterà al silenzio meditativo. Accanto al refettorio, il lavabo monumentale sacralizzava le semplici abluzioni dei monaci che lavoravano i campi.

Durante quasi ventiquattr'ore vivremo al ritmo della Regola di san Benedetto e sentiremo l'attrattiva potente di una vita che è pura lode. Dopo due secoli che i monaci se ne sono andati dal Thoronet, le loro ombre, o piuttosto le loro luci, non hanno abbandonato quelle mura perché gli spazi che la loro spiritualità ha fatto nascere corrispondevano perfettamente alla vita che hanno condotto. Nonostante tutta l'attrattiva che eserciterà su di noi, sentiremo che non siamo fatti per la loro vocazione ; ma quelle pietre votate alla liturgia delle ore ci infonderanno la speranza che oggi come in altri momenti della storia, come ai tempi di san Francesco d'Assisi o di Ignazio di Loyola, un'arte nuova possa nascere dalla spiritualità dell'Unità.

Parte quarta

Uno sguardo

Clic, Clac !

Odio i fotografi dilettanti. Aborrisco questi osceni ciclopi il cui unico occhio, penzolando sull'addome, divora in un batter d'occhio tutte le innocenti immagini che si avventurano a portata del loro zoom. Clic, clac ! La loro ingordigia non lascia alcuna speranza al minimo pezzo di muro, a nessun essere vivente, a nessun panorama : tutto è inscatolato ; tutto è per loro pretesto a souvenir. Clic, clac ! A dire il vero non guardano : mirano ! lampeggiano ! zumano ! Si leccano il diaframma, e si stuzzicano il bottone di scatto ; e se indietreggiano, è per meglio inquadrarti, bambina mia ! Clic, clac ! I fotografi dilettanti snidano, dietro le sue persiane socchiuse, una nonnina ; la rabboniscono mellifluamente ; l'introducono di soppiatto nel loro campo visivo, clic, clac ! primo piano.

Fortunatamente lo stomaco dei fotografi dilettanti non abbraccia quanto l'obbiettivo : Sono incapaci di digerire le loro abbuffate d'immagini. Aprite loro la pancia, come per il grande cattivo lupo, troverete i cappuccetti rossi e le nonnine alla rinfusa con tutte le altre immagini, intatte, solo un po' sconvolte e spettinate. Clic, clac ! Clic, clac, clic, clac !

Ahimè ! con le macchine moderne, i fotografi dilettanti non possono più guastare le riprese. Una volta, era più sportivo ! bisognava regolare la distanza, l'apertura del diaframma, il tempo di posa ; scegliere un filtro ; e poi le pellicole sviluppate si svelavano velate, sovraesposte, sottoesposte, sfumate, striate, rovinate. Le immagini non temevano niente.

Ma sulla minima macchina moderna, l'autofocus e la cellula fotoelettrica proibiscono ai recalcitranti soggetti di rifuggiarsi nello sfumato, nell'abbaglio della sovraesposizione o nella salvatrice penombra della sottoesposizione ; il flash automatico li snida anche nei controluce, che assicurava loro una volta un ultima protezione.

In quanto agli errori di parallasse, che risparmiavano all'ultimo secondo molti soggetti condannati, tagliando la testa ai ritratti, il campanile alle chiese, le palme ai cocchi, i muli alle carrozze ; oppure le inquadrature da padre di famiglia che allargavano il campo, permettendo al soggetto di dileguarsi in paesaggi insignificanti, sono resi improbabili, se non impossibili, da la generalizzazione dello specchio riflettore.

Una volta le dominanti tradivano i dilettanti più illuminati. Le dominanti verdastre di sinistra memoria, che infliggevano ai coloriti più delicati d'inquietanti aspetti di carne frolla, e le dominanti rosse che insanguinavano le carnagioni di late, senza parlare delle dominanti azzurre che annegavano i più immacolati sport invernali in bicchieri di menta Riclès. Scoraggiante !

Ma gli premurosi fabbricanti di pellicole hanno capito da un bel pezzo che i dilettanti vogliono farsi piacere, e sbalordire gli amici tornando dalle ferie, fornendo prove irrecusabili del buon aspetto, e del bel tempo. Perciò gli premurosi fabbricanti di pellicole hanno messo a punto dei prodotti che prediligono i colori carne e gli azzurri celesti, affinché i cieli e i mari dei fotografi dilettanti fossero imperturbabilmente azzurri, e la carnagione risplendesse di salute. Soddisfatti o rimborsati, i fotografi dilettanti non hanno niente da temere, le loro stampe saranno imperturbabilmente lusinghiere e disperatamente riuscite !

Soli alcuni rari puristi, kamikaze dell'obbiettivo, ricorrono ancora a delle pellicole sincere : le loro acque sono fangose, e i cieli loro grigi ; i volti dei loro modelli non nascondono la fatica, la fame, il terrore, la noia. Questi artisti approfittano del riflesso giallo o azzurro o rosso di un vestito o di un muro, per sottolineare, con una dominante, calda o fredda, l'espressione gioiosa o triste del modello.

Perché questi fotografi sanno che il cervello umano ha l'incresciosa tendenza di correggere le informazioni trasmesse dagli occhi se non corrispondono a quello che vuol vedere. Che ristabilisce di testa sua la sfumatura giusta della carnagione, il colore particolare di una stoffa cancellando ombre o riflessi. Questi fotografi si ricordano che quando gli Impressionisti incominciarono a dipingere - come vedevano, e come una pellicola sincera avrebbe fotografato - le ombre in azzurro, in rosso o in viola, la gente aveva gridato allo scandalo, alla perversione della realtà, mentre questi pittori solo restituivano ingenuamente quello che - liberati dalle convenzioni accademiche - i loro occhi vedevano.

Il cervello salvaguarda a tutti costi l'integrità di certi elementi la cui apparenza è codificata. In caso di diversità tra la realtà trasmessa dagli occhi e l'immagine che si fa della realtà, restituisce arbitrariamente l'immagine perfetta, e questo senza informarne minimamente la coscienza, che normalmente non se ne inquieta appunto perché il cervello ha preso una tale iniziativa per evitarle una preoccupazione inutile. L'apparente cattivo aspetto dell'interlocutore essendo evidentemente da attribuire a un insegna luminosa di una farmacia o al riflesso di un rutilante abito. Forte d'una precedente osservazione, il cervello corregge automaticamente, perché preferisce una sorta di astrazione, media, attutita, tranquilla, piatta, pensata, rassicurante, alla realtà contingente, problematica, ma eventualmente ricca di nuove scoperte e di nuove gioie. Producendo delle pellicole perfette, ma noiose, gli premurosi fabbricanti possono vantarsi di aver imitato la Natura che ha dato questo privilegio, o questo difetto che sia, al cervello umano.

I fotografi kamikaze svelano i propri sentimenti anche con l'inquadratura, la profondità di campo. Il loro mirino è a servizio della loro soggettività e della loro ispirazione artistica. Vedono il mondo come è, e, ai nostri occhi, il mondo è come ce lo mostrano con la loro arte. Ma agli occhi dei beffardi dilettanti, le loro fotografie sono uno scacco ! Pero - dicono con una finta umiltà : non è così difficile. Guardate, io che sono un dilettante - illuminato lo concedo, ma un dilettante - non ho sbagliato una sola fotografia da anni !

Tremo pensando ai migliaia di miliardi di fotografie di dilettanti, tutte più carine, più nette, più lussuosamente colorite, e più insignificanti l'una dell'altra, accumulate nei cassetti e le scatole di scarpe ; alle volte ordinate, munite di didascalie umoristiche e accuratamente disposte sulle pagine autoadesive d'album rilegati in zigrino ; ma tutte preziosamente conservate fino alla prossima pulitura di primavera, fino al prossimo trasloco, fino alle prossime doglie, senza essere mai guardate una seconda volta, perché più ci si ingombra di ricordi, meno ci se ne cura. la nostalgia, a dispetto di quanto si dice, rimane quella che era.

Prossenetismo dell'immagine

Interi popoli rifiutano di lasciarsi fotografare perché temono di perdere la loro anima. Non trovo questo atteggiamento ridicolo e arcaico, al contrario, giustificato e sovranamente rispettabile. Rifiuto di appropriarmi indovutamente dell'immagine di popoli, di culture, di cerimonie religiose, di santuari naturali. Non sono un predatore dell'anima dei popoli, un ladro della bellezza della natura, un bracconiere della vita selvatica. E soprattutto soffro la tortura nel vedere gente costretta dalla povertà a darsi alla prostituzione della loro immagine esotica, commovente, pietosa, o grottesca.

Mi ribello contro lo stupro dell'anima dei popoli, la profanazione della sacralità della natura, in nome di un arte dozzinale che altro non è che il mascherato prossenetismo di un'immagine pervertita, quando la bellezza stuprata, ridotta alla sua dolente caricatura, fa comprare ai creduloni tutto quello che i venditori di sogni hanno preparato per loro.

Il "souvenir" perverte l'immagine : cosa dire di Monna Lisa, della Venere di Milo, della cupola di San Pietro, o di una aquila reale, ridotti allo stato di decorazione di mutande o di cucchiai da caffè ? Ma la reciproca non è meno sconcertante, perché un vestito o un utensile d'uso comune sono snaturati quando diventano supporti di una immagine sconveniente.

Cliché

Cosa vedono i fotografi dilettanti ? Quando i fotografi dilettanti sono per di più dei provetti turisti, i loro occhi sono selettivi : vedono solo quello che corrisponde alle illustrazioni dei dépliant le cui quadricromie li fecero sognare, e in fede delle quale sono partiti in cerca di novità.

Identificano in situ le lussuose e allettante immagini, e fotografano loro stessi con frenesia l'oggetto della loro perseverante cupidigia, per appropriarselo, e introdurlo, al ritorno, nell'album familiare. Infelicemente in quel giorno il soggetto è nell'ombra ; un pilone nuovo di zecca rizza la sua carcassa rosso minio nel bel mezzo della composizione ; i fiori sono appassiti ; e l'orizzonte, che avrebbe dovuto fare uno sfondo suggestivo, si perde mollemente nel grigiore. Ch'importa ? Farà lo stesso un bel ricordo !

E come per convincersi se stessi che sono effettivamente passati in questi luoghi censiti con quattro stelle dalla guida, chiedono a dei compiacenti indigeni o ad altri turisti - a buon rendere !- di pigiare a posto loro sul bottone di scatto perché possano posare - sorridenti e distesi - in primo piano di una fotografia già preinquadrata.

Questi fotografi dilettanti che riportano una miete di fotografie - a centinai, a migliaia - cosa riportano se non dei cliché, cioè delle immagini bell'e fatte ? Cos'hanno visto ; cos'hanno sentito ; cos'hanno provato ? Quali ricordi riportano - tipici e a buon mercato - se non dei souvenir dozzinali, manufatti in qualche parte del mondo, da bambini e donne dalle mani di fate ?

Ma c'è più sconvolgente ancora : gli alti luoghi dell'arte o della natura, divenuti turistici, tendono a conformarsi all'immagine che i turisti si fanno di loro. Il kitsch ricopre progressivamente tutto il pianeta con le sue bellezze sempre più sgargianti, sempre più carine, più autentiche, più selvagge, più curiose, più uniche ; e il pianeta finisce con assomigliare da confonderci ai dépliant turistici.

La realtà si modella sul sogno. I paesaggi si fanno scenario ; gli abitanti comparse. La presenza di un obbiettivo perverte la realtà, la svia chiamandola a mimetizzarsi con quello che aspetta il fotografo. E quando un milione d'obbiettivi mirano tutti allo stesso audace effetto, allo stesso originale tocco, allo stesso contrasto, come la realtà non diventerebbe oscene, e non si metterebbe in scena, secondo il desiderio dello sporco pagante ?

Vedere con i loro occhi

Mi sono lungamente interrogato sulla opportunità di usare una machina fotografica. Avevo troppo considerazione per l'arte fotografica per accontentarmi di foto mediocri. Avrei amato imparare, ma non si può imparare tutto e avevo scelto.

Fotografare senza pretese, per il piacere ? La fotografia è una droga e mi sapevo troppo debole per disintossicarmene una volta assuefatto, ho temuto di ritrovarmi condizionato dalla mia machina, e incapace di non usarla in un atteggiamento egemonico. Sarei diventato allora il tipico fotografo dilettante, moltiplicando le fotografie, quello che rifiutavo categoricamente.

Se il prezzo della mia libertà intellettuale e affettiva è di rinunciare alla fotografia, lo pago volentieri. non voglio lasciarmi trarre a una indebita appropriazione, a un indiscrezione sotto pretesto dell'arte. Vivo l'arte come dono, marca di rispetto, rischio.

Mi sono fatto uno con la gente, con quello che ho potuto capire delle loro gioie e delle loro pene, della loro storia, delle loro speranze, ed è questo io trasformato che si esprime. In questo i miei acquerelli sono obbiettivi, perché esprimono senza trucco tutta la mia soggettività. Mi sono fatto uno, non guardo più con i miei propri occhi ma con quelli delle persone incontrate, conosciute, amate, che fanno parte ormai di me stesso. Mi considero come un testimone credibile perché non pretendo alla oggettività imparziale, ma che sono parte in causa. Quello che vedo mi concerne fino all'intimo. Miei occhi non sono un utensile neutrale, sono la lanterna del mio cuore. Se i miei occhi sono casti, io sono casto ; se i miei occhi sono accoglienti, io sono amore ; se i miei occhi sono chiusi, il mio cuore è cieco. Vivo quello che vedo.

La mia pittura, soggettiva, manifesta la mia intimità più profonda, il mio stato d'animo e di cuore, le mie gioie e le mie pene. Tutti i sentimenti più segreti sono messi a nudo, a vivo.

Per quanto dipingo quel o quell'altro paesaggio, sono me che dipingo senza rendermene conto. Mi dipingo come sono, lì, in questo luogo, in questo istante particolare della mia vita, penetrato da tutti sentimenti e tutte le sensazioni che questo luogo provoca in me. In questo senso mi disfo di me stesso ; me do tutto ; mi consegno senza difesa. La mia pittura è una confessione.

Il paesaggio è niente altro che me stesso in questo istante. Non perché progetto me stesso in questo paesaggio, ma al contrario, perché questo paesaggio e tutto quel che porta come carica emotiva ha trovato posto in me, al punto di essere trasformato in me. E guardo nel mio cuore tanto quanto fuori per dipingerlo. a dire il vero, ogni paesaggio che dipingo è un autoritratto.

Che i miei sentimenti siano dipendenti di quello che mi circonda, dal cielo azzurro o grigio, della qualità della luce, della natura pacifica o tormentata, delle linee e dai volumi, mi pare normale, ma osservo sovente quella che mi pare una dipendenza inversa : quante volte i paesaggi si conformano ai miei sentimenti i più intimi, i più segreti ; le sfumature di una tempesta o della serenità ritrovata di un tramonto, con quelli del mio cuore ?

La tecnica che uso, l'acquerello, costringendomi a lavorare molto rapidamente, mi permette di concentrarmi sull'essenziale, di mostrare solo quello che voglio vedere, quello che rimarrà in me quando il tempo avrà fatto decantare l'esperienza vissuta. I miei acquerelli non sono dei ricordi per il mio uso personale, ma per quello degli altri.

Anticipano i miei futuri ricordi, le immagini interiori che contemplerò in me in futuro, ma che non potrò comunicare agli altri, se non dando loro la forma di un racconto o di una poesia in mancanza di musica, ma anche lì - e quanto mi dispiace !- la tecnica mi manca crudelmente.

Sguardo puro

Ho ricevuto da Mario Ponta, Fotografo, un libretto di fotografie con rilegatura a spirale. Guardo attentamente le stampe consacrate ad una famiglia. Prima impressione mitigata. Niente di travolgente, nessuna inquadratura sbalorditiva, nessuna composizione ricercata, nessun effetto sorprendente. Il fotografo non ha cercato di piacere ne di scandalizzare, Non si è fatto piacere con raffinatezze estetiche. Non ha giocato la carta del sentimentalismo, ne del ridicolo. E' da chiedersi dove andato a finire il fotografo ? C'è un fotografo dietro l'obbiettivo ? Ma è veramente fotografo, il fotografo ?

Di colpo le fotografie mi sembrano straordinariamente ordinarie, normali, evidenti. Come se non ci fosse fotografo tra la famiglia e me. Sono a casa di questa famiglia, nella sua intimità. Non posano, vivono davanti a me, con me, la loro vita di ogni giorno, senza falso pudore, senza affettazione.

Come il fotografo ha fatto per farsi dimenticare così radicalmente ? questo mi incuriosisce. Più studio il suo lavoro, più cresce in me l'impressione che ho incontrato uno sguardo.

Esistono certamente centinaia, migliaia di fotografi dotati come Mario Ponta o più di lui. Alcuni si distinguono per la personalità artistica affermata. Rari sono quelli che portano uno sguardo originale sulla realtà. Mario Ponta è uno di quelli. Uno sguardo che qualificherei di rispettoso, o di tenere. Meglio, uno sguardo puro. Quello a chi la beatitudine evangelica promette di vedere Dio. Uno sguardo che vede al di là della superficie delle cose e della gente.

L'uomo invisibile

In un delizioso racconto di Padre Brown, Chesterton analizza con tanta finezza quello che può rendere un uomo invisibile. Atti strani e minacciosi sono fatti e un crimine è commesso in presenza di numerosi testimoni che non hanno visto niente.

Ebbene il criminale era grande, e vestito di colori vistosi. E' passato davanti il portiere del palazzo e un poliziotto in fazione, portando il cadavere della vittima in un sacco e lasciando tracce di passi nella neve. Però questi testimoni in buona fede non l'hanno visto, o più esattamente tutti hanno dimenticato di averlo visto, e sono pronti a giurare che non c'era stato nessuno.

Ci vuole tutta la perspicacia e li buon senso di Padre Brown - piccolo parroco poco portato a credere ai miracoli inutili - per capire che non era che l'uomo fosse invisibile, ma che i testimoni non lo vedevano perché errano troppo abituati alla sua presenza. In qualche modo faceva parte del scenario. Il criminale era il postino. La sua presenza era così normale che nessuno aveva prestato attenzione, ne a lui, malgrado il suo uniforme sgargiante, ne al suo sacco postale. Il suo sarebbe stato un crimine perfetto, senza l'intervento di Padre Brown.

Osservando il lavoro di Mario Ponta, mi tornava nella memoria l'uomo invisibile, perché il suo modo di farsi dimenticare, non è nascondersi, ma di essere lì, così evidentemente lì, così evidentemente occupato a fotografare, che nessuno presta attenzione a lui. La sua presenza nell'intimità della famiglia è assolutamente normale. Sono certo che se si chiedesse : avete avuto una visita oggi ? In perfetta buona fede, risponderebbero in coro : Non, nessuna. Abbiamo passato la giornata tra di noi.

Trenta cinque millimetri

Quando si vuole fotografare l'intimità, spesso si usa dei teleobiettivi che permettono di rimanere a distanza, per vedere senza essere visto. I poliziotti che pedinano un sospetto, o i paparazzi che braccano una celebrità, prendono delle foto all'insaputa della loro preda. Per motivi buoni o cattivi, stuprano una intimità, e rubano un immagine destinata a rimanere privata.

La violenza esercitata dal teleobiettivo, che avvicina arbitrariamente il soggetto riducendo il campo (alle volte in modo estremo quando il fotografo maneggia obbiettivi che assomigliano a bazooka), non è senza lasciare la sua impronta sulle fotografie così ottenute.

Il slogan pubblicitario di una delle riviste illustrate che pubblica questo tipo di documento, lo dice bene, magnificando il "choc" delle fotografie. Guardandole il lettore prova un piacere o un disgusto a seconda, ma non può non sentire che entra per effrazione. La prospettiva schiacciata, sia nelle proporzioni che nelle tonalità, contraddice i primi piani dell'inquadratura, e tradisce l'uso del teleobiettivo. una fotografia al teleobiettivo è una fotografia rubata, e in certi casi, è un delitto punito dalla legge.

Mario usa un obbiettivo trentacinque millimetri, leggermente grandangolare. un obbiettivo banale, quello maggiormente usato tradizionalmente nel "reportage". Quello che è rappresentato sulla fotografia non è deformato, come con un vero grandangolare, e rende conto della distanza tra il soggetto e il fotografo. per esempio un primo piano può essere ottenuto solo da molto vicino.

Il fotografo è in qualche modo presente nella fotografia (alle volte nel senso stretto ella parola, quando si distingue la sua sagoma negli occhi del modello), nella situazione del soggetto. Se vede, è visto. Se è vicino, al punto di poter toccare il soggetto (primo piano), il soggetto può toccarlo, scartarlo, tappare l'obbiettivo con la mano.

Il fotografo è nelle stesse condizioni che i suoi modelli, guardato, come loro. Il modello sa di essere fotografato, come sa di essere visto da qualsiasi altra persona presente in questa intimità. Se accetta questa presenza, l'intimità non è rotta dal fotografo, e la fotografia non è un indiscrezione. Allora l'immagine non è rubata, ma offerta e ricevuta come un regalo.

Il fotografo altro vantaggio sui suoi modelli non ha che il solo fatto di poter in seguito rendere conto di quello che ha visto e restituire per sempre a i suoi modelli le immagini offerte in un momento di fiducioso abbandono e di generosità. Lo sguardo del fotografo non pietrifica questi istanti come lo farebbe una fotografia ottenuta di sorpresa con il lampo o con il teleobiettivo, ma eterna degli istanti fuggitivi, e le rende percettibili agli interessati stessi. Egli è specchio. Eventualmente rivelatore.

Tali immagini possono essere usate solo con il consenso esplicito del modello, perché svelano una estrema intimità. Voglio dire che la fotografia al teleobiettivo, essendo visibilmente presa all'insaputa del modello, l'indiscrezione concerna solo la responsabilità del fotografo, mentre qui è chiaro che il modello si sapeva fotografato. Il suo fiducioso abbandono al fotografo esige la reciproca. Il fotografo dovrà rispettare l'eventuale rifiuto di rendere pubblica una fotografia che per una ragione o per un'altra disturberebbe il suo modello. Il fotografo dell'intimità è legato, al meno moralmente, dal segreto professionale.

Ascesi

Mario ha rinunciato ai suoi ingombranti obbiettivi, al lampo, alla valigia che ogni fotografo che si rispetti si deve di portare a tracolla. Mario gira con un semplice compact nella tasca della sua giacca. Certo il su compact è della migliore qualità, e l'ottica perfetta.

Mario non sdegna l'elettronica, ma non si fida ciecamente, rimane padrone di ogni ripresa. Ha rinunciato al caricatore motorizzato per ridurre il rumore al minimo, d'altronde da tempo non mitraglia più i suoi soggetti alla cieca. Cerca di prendere ogni istantaneo in un istante di lucidità. Deve tenere conto insieme di numerosi parametri. Senza parlare della sua immobilità totale al momento dello scatto, perché, lavorando senza lampo in una luce sovente molto debole, deve allungare il tempo di posa. Una giornata di riprese lo esaurisce letteralmente.

E la gioia poi ?

Se Mario ha rinunciato a molte facilità per ragioni etiche, è per ragioni estetiche che ha scelto il bianco e nero, invece del colore. Si tratta di una scelta difficile. Le riviste, i libri, i stessi quotidiani, sono sistematicamente stampati a colori, senza parlare della televisione e del cinema. Il colore fa cassetta al punto di essere diventata - si direbbe - d'obbligo.

Pertanto in questa scelta del bianco e nero, Mario è lontano di essere solo. Certi tra i migliori fotografi professionisti (specie quelli della sua generazione, satura di colori) osano, come lui, prendere le distanze con la facilità un po' volgare, e nuovo ricco, della fotografia a colori, per consacrarsi a una ricerca più ardua, ma portatrice di gioia.

La gioia, contrariamente al piacere o al godimento, esige sempre un'ascesi. non c'è gioia senza sforzo. E' una verità tanto indiscutibile quanto fuori moda. Non è la nostra società d'abbondanza, di consumo e di rifiuti, che si farà propagandista di una tale idea. Ma favorendo sempre il più facile, quello che si ottiene senza sforzo e si getta dopo l'uso, privilegiando il godimento e il piacere, la nostra società ci priva a priori della gioia.

Riconosciamo che non siamo formati in vista della gioia. La parola stessa è dimenticata, o usata male come sinonimo di godimento o di piacere. Ma bisognerà pure un giorno riscoprire la gioia, e le gioie della vita. Perché è una triste involuzione e uno sconcertante impoverimento - una vera e propria automutilazione del nostro essere umano - che di privarsi, o di privare gli altri, di quello che rende l'uomo più uomo, e fa la sua vera felicità.

Vedere e guardare

Una fotografia a colori è probabilmente più attraente, più gradevole, più direttamente accessibile. (Evidentemente parlo di fotografie di buona qualità, perché niente è più volgare e più rattristante di una mediocre fotografia a colori.) Si lascia vedere senza bisogno di guardarla.

Si può sfogliare intere riviste senza avere notato niente, senza conservare il minimo ricordo. La vista è stata piacevolmente sollecitata, ha provato un godimento, che mi guarderò bene di sprezzare, perché, se si tratta di uno rilassamento onesto, può avere un suo posto nella nostra giornata e giocare il suo ruolo di distrazione. ma nel momento successivo, non rimane niente.

Vedere - verbo passivo - provoca un piacere o un dolore d'ordine sensuale. Guardare - verbo attivo che suppone un atto deliberato, un attenzione, uno sforzo, una riflessione - porta una gioia o una sofferenza d'ordine intellettuale o spirituale. Una educazione del gusto che si affina lungo tutta l'esistenza e rende le gioie sempre più delicate e più sottili, più ricche e più durature.

Certo un apprendistato costa, e imparare a guardare non è facile. Non guarda chi vuole ! Quante persone hanno occhi e non vedono ! quante non sono state educate a guardare, e non sanno vedere. Quante usano gli occhi a uno per cento, o uno per mille delle loro capacità e sono dei ciechi che non sanno di esserlo, tanto meno curabili quanto più credono di vedere ?

Verso l'Immagine

La missione del fotografo consiste a prenderci per gli occhi per guidarci verso l'immagine. L'immagine - anche la più figurativa, anche la più iperrealista - non è mai il semplice calco della realtà. Non può pretenderci, perché è obbligatoriamente legata ad un preciso momento, un particolare punto di vista, una determinata inquadratura.

Alla fotografia, ridotta alle due dimensioni di un foglio di carta, manca, per definizione, una dimensione dello spazio e quella del tempo per aspirare all'integrale realismo. Ma giustamente non ci pretende. La sua mira è più umile e più ambiziosa nel contempo. L'arte è sempre portatore di senso, anche e magari maggiormente quando gli artisti affermano il contrario. Un istantaneo non ci toccherebbe se ci vedessimo solo un cinque centesimo di secondo della vita di un uomo - realisticamente parlando quantità trascurabile - ma perché la fotografia è portatrice di una immagine più universale, che provoca in noi emozioni e riflessioni.

Tutta l'arte del fotografo consiste nel distinguere l'immagine semplice nella confusione e il disordine del reale, e di evidenziarla. Liberare l'immagine semplice, quella che risveglierà e attiverà, nel profondo del nostro essere, altre immagini ancora più semplici, perché ancora più universali e più simboliche.

Bianco e nero

L'immagine semplice, quella che il fotografo a vista e vuole farci vedere, tanto più chiara e parlante quanto più spoglia di tutto quello che la accompagna nella realtà, e rischia di sviarci attirando la nostra attenzione. I Cinesi dicono : il poeta mostra la Luna e l'imbecille guarda il dito. Il fotografo avrà la scelta : mostrare la Luna, il dito, o il dito che mostra la Luna, ma dovrà scegliere.

Saremo tanto più toccati dalla fotografia quanto più l'immagine sarà definita meglio e più netta, e non parlo del grano della pellicola ne della qualità ottica della stampa. Quando troppi messaggi ci arrivano nello stesso tempo, ci è difficile capire quello che ci è realmente indirizzato. A causa della loro sensualità i colori sono portatori di simboli e di messaggi annessi che nella realtà non coincidono automaticamente con il vero messaggio portato dall'immagine. Il bianco e nero permette di levare l'ambiguità.

I colori possono essere necessari, ma il loro impiego deve essere, da parte del fotografo, una scelta deliberata e non l'apparente facilità di un se dicente realismo che sovente confonde la lettura dell'immagine. D'altronde le più belle fotografie a colori non sono i più delle volte quelle meno variopinte, e che per la semplicità dell'effetto si accostano al bianco e nero ?

Mario non è solo ad avere riscoperto il bianco e nero. Una buona parte dei più grandi fotografi contemporanei come il Brasiliano Sebastião Salgado, testimone insigne del dolore e della nobiltà dei poveri di questo mondo - e per ragioni simili - ne fanno un uso esclusivo.

I pubblicitari, che sono, più degli altri, sensibili a quello che attira l'attenzione e permette di comunicare un messaggio, lo usano sempre più di frequente. Lo associano non più all'idea di povertà, di sottosviluppo, ma a quella di raffinamento e di cultura.

Lo stesso ritorno al bianco e nero si osserva nel cinema che sembrava totalmente acquisito al colore al punto che i capolavoro della storia del cinema per poter passare alla televisione dovevano essere "colorizzati", come si dice con un vocabolo barbaro quanto la cosa stessa. Numerose ormai sono le super produzioni, dagli preventivi da capogiro, che scelgono il bianco e nero per imperiosi ragioni estetiche. E' il bianco e nero al di là del colore, il superamento del colore e non la sua assenza.

Parte Quinta

Povertà non è vizio... di forma

Gli effetti speciali

Gli effetti speciali sono nati col cinema, poiché il primo cineasta, colui che ha liberato il cinematografo dalla registrazione meravigliata dell'aneddoto per fame la settima arte, Méliès, ha inventato, con i primi rudimenti del linguaggio cinematografico, quelli che a lungo sono stati umilmente chiamati trucchi perché dovevano molto ai trucchi degli illusionisti e dei prestigiatori. Poi essi hanno assunto un'importanza veramente fantastica nell'elaborazione, nell'estetica e nel bilancio di certe produzioni e, avendo ottenuto le loro patenti di nobiltà, ne hanno naturalmente approfittato per cambiare di nome. Vi sono degli effetti speciali così perfetti e così mirabilmente adattati al canovaccio e allo stile del cineasta che rivestono il carattere di una necessità imperiosa. Pochi secondi sullo schermo, di queste fantasmagorie sfavillanti, possono richiedere l'immaginazione sbrigliata di artisti barocchi, la pazienza minuziosa e le tecnologie sofisticate di artigiani di genio, e rappresentare in conseguenza una spesa folle, e nondimeno ragionevole, se farne economia avrebbe snaturato l'opera. La dismisura è intollerabile quando trae da se stessa la sua giustificazione. La montagna in questo caso partorisce un topolino. Quando canovaccio, messa in scena o recitazione degli attori sono mediocri, il cumulo degli effetti speciali può lasciare a bocca aperta lo spettatore, ma non gli evita il fastidio e Irritazione davanti allo sperpero di tanta ingegnosità e ricercatezza tecnica. Ma è anche perfettamente vero che dei mezzi insufficienti possono far affondare un'impresa artistica peraltro promettente ed encomiabile. Quando si hanno delle buone idee, non si ha il diritto di mancare dei mezzi per la loro messa in opera.

La nonna di Proust e i suoi spessori

Marcel Proust racconta che sua nonna, per ritardare il giungere della banalità, cercava d'introdurre quelli che egli chiama : parecchi spessori d'arte. Più che la semplice fotografia di un monumento, ella preferiva dargli per esempio la fotografia di un dipinto di Corot rappresentante la cattedrale di Chartres. L'idea è commovente nella sua ingenuità : perché non pensare infatti con lei che più strati successivi di talenti diversi e di lavoro valgono più di uno, e che la fotografia d'una incisione rappresentante un dipinto dà per accumulo più bellezza dell'intervento di un solo artista ? Ma un tale ragionamento implica che gli artisti successivi siano dello stesso valore almeno, altrimenti, invece di un progresso, si tratterebbe di un regresso. Ogni intervento infatti toglie qualcosa invece di apportarlo. Nell'esempio di Proust, bisognerebbe dunque che l'incisore fosse almeno altrettanto bravo del pittore, e il fotografo dell'incisore. Nel caso contrario, è evidente che avremmo una perdita a ogni nuovo intervento. Gli spessori d'arte della nonna di Proust apportano arricchimento o piuttosto pesantezza e impiastricciamento ?

Penso agli arrangiamenti, come li si chiama, di certe opere musicali, in cui si deve prendere il termine nel suo senso banale : un'opera " ben arrangiata " ! Penso anche a certe politure operate su un manoscritto o su una partitura per perfezionare un'opera giudicata troppo ruvida, o ancora a certi rifinimenti di una scultura non meno penosi che pii. I colpi di forbice dei perfezionisti - anche i più rispettosi - il più delle volte tagliano le ali al genio, perché lo limitano a ciò che ne hanno compreso loro stessi e lo riducono nella misura inversa della loro ammirazione abusiva.

In compenso, quando un vero artista si misura con un altro in una competizione che può talora sembrare iconoclasta, come Picasso che copia a suo modo Velázquez o Manet, ci si può attendere dei nuovi capolavori, com'è delle variazioni di Brahms o delle tragedie di Racine ispirate dagli Antichi. Ma si tratta di spessori d'arte nel senso di Proust ? In ogni caso non verrebbe in mente di comparare Velázquez e Picasso, di ascoltare Paganini ascoltando Brahms, né di ricercare Euripide assistendo a una rappresentazione di Andromaca. Gli artisti veri non copiano mai, anche quando ne assumono l'aria, e le loro opere sono sempre originali e distinte da quelle che sono loro servite di stimolo più che di modello.

Quando vi sono parecchi spessori d'arte, bisognerebbe poter mentalmente passarli in rivista a uno a uno e verificare che ognuno apporti realmente un miglioramento, e che s'impoverirebbe l'opera togliendolo ; ma si dovrebbe verificare anche che esso non sia un coprimiserie, un orpello brillante che maschera la vanità dell'opera. Un test utile e istruttivo può essere effettuato con un semplice apparecchio televisivo o ancor meglio con un videoregistratore.

Prendiamo per esempio un programma musicale. Sopprimiamo l'immagine per un momento ; sapremo, ascoltandolo come una semplice emissione radiofonica, se la sua qualità sonora richiedeva il perfezionamento dell'immagine. Guardiamo ora la sola immagine, come si vede dietro una vetrina nella strada, e chiediamoci se il fascino dello spettacolo è tale che vorremmo entrare per udirne il suono o se continueremmo per la nostra via. Dopo aver guardato l'immagine muta o ascoltato il suono cieco, quando ristabiliamo l'insieme, domandiamoci se immagine e suono sono corrispondenti, non in un semplice sincronismo che è una cortesia elementare, ma quanto al senso, allo stile, all'atmosfera, e via dicendo. Poi potremo interessarci più da vicino all'immagine, fermandoci su un piano fisso, sopprimendo il colore per meglio giudicare la composizione e, perché no ? trascrivere il testo e valutare se meritava di essere messo in musica. Ci interrogheremo ugualmente sulla necessita vitale dello sfondo, dei costumi, della coreografia e della messa in scena, del gioco delle luci...

Si sarebbe tentati di dire che l'opera vale ciò che vale la sua componente più mediocre, come una catena dalla solidità del più debole dei suoi anelli ; ma sarebbe un'ingiustizia, perché tutti gli elementi che si integrano in un'opera non hanno nonostante tutto la stessa importanza, e se gli elementi essenziali hanno la qualità voluta, la mediocrità degli altri non si noterà forse troppo. Ma credo che sia meglio rinunciare a intonacare la propria opera d'uno spessore d'arte supplementare e conservare all'opera la sua omogeneità. E' meglio suonare davanti a dei parati grigi che in un brutto scenario, sia in abiti da passeggio che in costumi ridicoli, dare un buon. concerto più che una pietosa rappresentazione.

A teatro, la realtà è limitata a ciò che i riflettori illuminano, il resto non esiste. Così la creazione artistica dà il privilegio e la responsabilità di scegliere ciò che si vuole mostrare, secondo i propri mezzi. I maggiori capolavori sono spesso il risultato di una sfida accolta fieramente, che vede il creatore superare la mancanza di mezzi attraverso un'utilizzazione massima - quasi miracolosa - che è il marchio del genio, di tutti i mezzi messi a sua disposizione, al punto che niente manca, e che niente è superfluo, tutto apparendo sistemato conformemente all'evidenza e alla necessità. Howard Hawks, che fu un grande creatore, non lesinava sulle spese, ma voleva che si vedesse sullo schermo ogni dollaro speso.

I mezzi più grandi comportano una più grande responsabilità artistica e sociale. E meglio un quartetto perfetto o un'orchestra sinfonica mediocre ? Forse... un'orchestra sinfonica perfetta, se suona con la precisione del quartetto e l'ampiezza dell'orchestra. Altrimenti il numero è una giustificazione della mediocrità. Alla fine del Don Giovanni, il settimino cantato da tutti i solisti è probabilmente più bello di una semplice aria ; quanto meno qualcosa di diverso, ma cantato dai coristi a che si ridurrebbe ? E il filo di voce un po' rauca del flauto di Pan incanta le orecchie più difficili quand'è suonato da Georghe Zamfir, precisamente come una matita nelle mani di Picasso basta per disegnare la colomba della pace.

Il balletto dei panini

In uno dei migliori momenti de "La febbre dell'oro", Charlie Chaplin accenna con due forchette infilzate in due panini ai passi di un balletto classico. I mezzi sono ridotti al minimo, e l'evocazione è d'una irresistibile comicità. La misera tavola del cercatore d'oro è per un momento il Covent Garden, ed è la Pavlova che piroetta tra i piatti sbrecciati. Tutta la danza è qui. E nei panini, nelle mani e nelle mimiche di Charlot. Proprio come una ballerina, il volto del commediante si esibisce in punte e saltelli. I suo occhi disegnano lo scenario e danno un'anima alla danzatrice. Sono bastati una semplice inquadratura dell'angolo di un tavolo, dei panini al latte, delle forchette di metallo bianco e tre noterelle di musica.

Ella Fitzgerald

Per più di un'ora un'orchestra jazz ha per missione di riscaldare la sala, ma non si tratta di un semplice alzarsi di sipario, ogni musicista varrebbe lui solo la presenza degli spettatori. Ognuno è capace di cattivare il pubblico, e tutti hanno diritto agli applausi. I timbri diversi, le sonorità contrastanti, i ritmi dialogano e si completano. Un'ora di gioia autentica.

Entra Ella Fitzgerald, grande silhouette un po' spessa, modellata in una guaina nera che luccica dolcemente sotto le luci della ribalta. Entra in scena, e come un fremito rispettoso percorre la sala. Non c'è più un'orchestra e il suo pubblico, ma Ella Fitzgerald sola, e gli spettatori con l'orchestra in comunione con lei. Ed eccola che canta.

No, lei non canta, suona con la sua voce tutti gli strumenti. E contrabbasso, tromba, chitarra, piano e batteria. E orchestra. E' musica. E la felicità esplode perché i musicisti superano se stessi, ma la voce umana li esprime tutti, li trascina tutti, li sublima tutti.

Attenzione, un crocifisso può nasconderne un altro !

A Pirano, antica città portuale dell'Istria, i pescatori e i marinai venerano un grande crocifisso appeso nel battistero vicino alla cattedrale. Non molto tempo. fa, questa scultura barocca un po' languida, di stucco policromo, reclamò le cure di un restauratore, fortunatamente accurato. Sottopose il crocifisso a vari esami tra cui i raggi X e si formato la convinzione che il gesso barocco ricopriva un legno più antico.

Ebbe il coraggio di raschiare e mise in luce un capolavoro unico. Nell'epoca barocca, la pietà moderna aveva corretto l'asprezza dell'arte medievale, giudicata probabilmente sacrilega. Languidezza, scipitezza, leziosità avevano ricoperto nobiltà, forza e saldezza. La tragedia era stata truccata di melodramma. Nondimeno il crocifisso fuori moda, adattato secondo i gusti del momento, aveva commosso delle generazioni. Oggi che ha ritrovato il suo splendore originale, è lì, protetto contro i vandali, i ladri e i maniaci da un vetro blindato, nella solitudine estrema della sua sublime bellezza. Non viene più a nessuno l'idea di accendere un cero davanti a lui. E' forse un peccato, dopo tutto ?

Almeno la sorte del crocifisso di Pirano è più invidiabile di quella di un altro, il cui corpo senza testa fa la gloria del Louvre, e la testa senza corpo, quella del Metropolitan Museum of Art di New York. L'amore della bellezza ha di queste crudeltà : non si dice che la Venere di Milo perse le braccia, che aveva molto belle, nella lotta accanita a cui si abbandonarono su una spiaggia dei marinai francesi e inglesi, che se la contendevano in nome degli interessi superiori della cultura ?

Editb Piaf

Un sipario di velluto scuro e davanti, cosi minuta, solo la silhouette vestita di nero di Edith Piaf. Niente di più sobrio e niente di più efficace dei rari gesti (uno per canzone) che sottolineavano i sentimenti con franchezza e pudore. Una voce, delle mani, un volto : non occorreva di più alla cantante per incantare il suo pubblico ; ma anche quale adeguamento perfetto dei suoi effetti volontariamente limitati, ma dosati, dominati, portati all'incandescenza Edith non faceva né troppo né troppo poco. Il suo genio dipendeva forse da questo : generosità e modestia. Ella si dava tutta... ma non esagerava.

Gli "Oscar"

Ogni anno, a Hollywood, i professionisti del cinema assegnano degli Oscar a quelle che giudicano le migliori prestazioni nelle varie discipline della loro arte. Un Oscar va alla colonna sonora, un altro all'inquadratura, un terzo alla musica, uno ancora al copione e alla messa in scena, e cosi di seguito per tutte le discipline. Capita molto spesso che un film raccolga la maggior parte di questi premi tanto ambiti. Ci se ne stupisce, ci si adombra, subodorando qualche soperchieria. Ci si dovrebbe stupire piuttosto che non le rastrelli tutte, perché il miglior film dell'anno dovrebbe esserlo in tutti i suoi aspetti, e se peccasse in uno solo, come potrebbe aspirare ai più grandi onori ? Ma la perfezione non è di questo mondo...

Evoluzione regressiva

Nel corso della sua storia, il cinema ha beneficiato periodicamente di perfezionamenti tecnici, la cui successione è così logica, e pertanto ineluttabile, che avrebbe potuto essere prevista dai primi giri di manovella de La sortie de l'Usine Lumière o de L'aroseur arosé. Alla fotografia, rappresentazione statica della realtà a due dimensioni, i fratelli Lumière aggiungono la terza dimensione del movimento.

Il cinematografo è nato. Scrittura del movimento. Per qualche tempo questa novità basta ad attirare gli spettatori che, fin troppo felici di vedere delle immagini animate, non si rendevano conto che il cinema era muto. e non se ne lamentavano, perché il cinema era una scrittura completa che permetteva a degli esseri così grandi e così diversi come Méliès, Eisenstein, Griffith o Charlie Chaplin di firmare le opere più notevoli di questo secolo. Ma quando la qualità delle immagini divenne tale che non le mancava più che la parola, ci si ricordò di un'invenzione contemporanea del cinema, il disco e la registrazione del suono, e fu l'avvento del "parlato".

La nuova tecnica soppiantò la vecchia in un batter d'occhio, perché un'altra dimensione s'era aggiunta alla rappresentazione della realtà, e l'attrattiva della novità, nonostante tutti gli sforzi di certi puristi come Chaplin, ebbe il sopravvento su ogni altra considerazione. Un nuovo linguaggio cinematografico stava nascendo, il quale avrebbe prodotto altri capolavori ; ma nell'attesa, gli spettatori si precipitarono nelle sale oscure per udire parlare le immagini, e che importava ciò che esse dicevano dal momento che non erano più mute ! Poi venne il "colore" che fece dimenticare i progressi precedenti, e il cinemascope e gli schermi giganti, senza parlare dei tentativi abortiti del cinema in rilievo.

L'introduzione di una nuova tecnica più sofisticata non comportò automaticamente una crescita artistica corrispondente, tutt'altro ! Si può affermare tranquillamente che i primi film dotati degli ultimi perfezionamenti tecnici hanno segnato ogni volta un considerevole arretramento estetico che bisogna probabilmente imputare allo spostamento del centro di gravità dalla creazione artistica alla prodezza tecnologica.

Scelta giustificata quanto al rendimento, poiché, sempre, il pubblico si appassionò all'impresa ed ebbe in uggia le produzioni tradizionali. Questi grandi successi commerciali non furono dunque dei capolavori imperituri. Ai balbettii cacofonici dei primi parlati successero le accozzaglie di colori dei primi technicolor, e le inquadrature vertiginose dei primi cinerama. E, poiché ne aveva preso gusto, il pubblico pretese il suono, il colore e il grande schermo, e ogni volta questa inflazione di mezzi mise i realizzatori nell'obbligo d'impiegare le nuove tecniche sotto pena di rinunciare a piacere. Certi seppero padroneggiarle, altri, che s'erano mostrati così raffinati quando disponevano di tecniche grossolane, divennero grossolani quando furono costretti a utilizzare delle tecniche raffinate.

Il progresso tecnico non cambia niente, a lungo termine, della questione essenziale che resta sempre la padronanza della scrittura ma soprattutto al di là dello stile che già di per sé non è cosa da tutti l'avere qualcosa da dire.

Qualsiasi dilettante dispone oggi di cineprese e di pellicole più funzionari di quelle di Charlie Chaplin, Dreyer o Eisenstein ; ma dove sono girati la Febbre dell'oro, la Corazzata Potémkin e la Passione di Giovanna d'Arco dei nostri tempi ? Con i materiali attuali sempre più automatizzati e informatizzati non si può più sbagliare una fotografia, ma le fotografie veramente riuscite si fanno rare.

I fabbricanti propongono delle pellicole che garantiscono dei cliché piacevoli, dai colori caldi che blandiscono l'occhio, in cui i cieli sono sempre blu e i volti in buona salute ; la messa a punto è automatica ; il tempo di pausa e il diaframma sono calcolati ; ma è sempre più difficile creare perché, essendo i mezzi multiformi e superiori, occorre un genio superiore e multiforme per produrre un capolavoro.

Non si può più fare a meno della tecnica perché essa è alla portata di tutti ; ma la tecnica non basta, e l'arte d'oggi, in ragione stessa dell'inflazione di mezzi, cessa spesso di essere l'affare di uno solo per esigere sempre più la collaborazione di molti, e diventa obbligatoriamente un lavoro di équipe.

Una tale evoluzione comporta nell'artista un cambiamento radicale : la sua arte non è più solo composizione di elementi tutti usciti dalla sua immaginazione ma coordinamento dei membri di una équipe in vista di un'opera comune, e la sua responsabilità s'accresce tanto di più in quanto egli mette in gioco la libertà, il lavoro, il talento, la creatività, perfino il genio dei suoi colleghi che sono al servizio della sua opera, e dunque non deve vessarli o manipolarli ma non deve nemmeno lasciarsi distogliere dalla loro dalla sua ispirazione, sotto pena di vedere l'opera degenerare se ognuno tira la coperta a sé.

La creazione collettiva è facilmente la "torta alla crema" dell'arte contemporanea, come il genio solitario poteva essere quella di un periodo precedente. In realtà, la creazione collettiva è molto più difficile del lavoro individuale, e sarebbe illusorio pensare che essa esenti dagli obblighi della creazione. Al contrario, se essa annuncia senza dubbio un'arte nuova e forse la sola possibile per i nostri tempi, essa suppone che si superino degli ostacoli nuovi e in conseguenza richiede delle qualità che non erano. forse le meglio rappresentate nel mondo degli artisti : l'umiltà, la pazienza, il distacco, l'ascolto dell'altro, l'accoglimento, il senso dell'organizzazione e del rendimento per citarne alcune alla rinfusa. senza trascurare beninteso tutte. quelle comuni agli artisti di tutti i tempi, e in primo luogo l'ispirazione, senza la quale non c'è arte ma contraffazione dell'arte, snobismo, commercio, manipolazione di ogni genere.

Birnau

In mezzo alle vigne accuratamente tenute che scendono a gradi fino alla sponda, bene impiantata su di una terrazza soleggiata che domina il Lago di Costanza, si erge fieramente l'Abbazia benedettina di Birnau. Mura d'intonaco bianco, pilastri grigi, finestre e comici di arenaria rosa, alte coperture di tegole scure : l'esterno dell'edificio è austero.

Il contrasto è ancor più sorprendente quando si varca la grande porta di quercia e si penetra nel santuario. L'arte barocca sembra aver dato libero corso alla sua fantasia straripante. Qui la luce, che entra a fiotti attraverso le grandi invetriate bianche, carezza gli stucchi dai colori chiari nella lucentezza degli ori generosamente disseminati sui muri e sulla volta. La struttura architettonica, tutto sommato molto semplice - quasi banale -, è nascosta, spezzata, ostacolata, contraddetta dalla fioritura lussureggiante di una. decorazione sbrigliata. L'ordine classico soggiacente è sistematicamente infranto in superficie dalla magia serica delle curve asimmetriche che rivestono il tessuto costruttivo come' un ricamo prezioso dai colori cangianti.

Esiste un'altra architettura occidentale in cui l'ornamento prende il sopravvento sulla struttura : è il gotico fiammeggiante ; ma l'architettura medievale ha un cammino opposto a quello della sua compagna barocca. Il gotico è un sistema costruttivo sempre più raffinato, la cui bellezza deriva principalmente dall'espressione sempre più manifesta e sottile della struttura portante. Dalla chiave di volta fino alle fondamenta si può seguire, lungo le nervature, il percorso delle forze di gravità come sul .disegno di un ingegnere di statica. Quando il gotico getta i suoi ultimi bagliori, la virtuosità dei costruttori è tale che possono come farsi beffe delle leggi della gravità e offrire' al nostro stupore dei merletti di pietra, e se parliamo di merletti non è solo a causa della leggerezza apparente di questi edifici, ma perché la bellezza del merletto è tutta nella sua struttura. Il punto d'approdo dello strutturalismo gotico è uno sminuzzamento tale che si dimentica la parte costruttiva a beneficio dell'ornamento puro.

Il barocco non s'interessa alla struttura, che al contrario nasconde come se ne avesse vergogna, e non teme di fare appello al trompe-l'oeil per evocare delle architetture impossibili. Così, la dove il gotico segnala i nodi di forza con imponenti chiavi di volta, il barocco - con un artificio - suggerisce un'apertura, una prospettiva spalancata verso l'alto, e questa architettura irreale è più affermata e più convincente della costruzione propriamente detta.

Passato il primo choc, resto a lungo seduto sul pesante banco di legno prezioso, sbalordito, colto da un sentimento strano, dalla necessita di comprendere. Perché il barocco ? E perché questo barocco mi piace mio malgrado ? Perché è bella questa chiesa abbaziale di Birnau ! Non posso negarlo, anche se essa è in contraddizione con certi miei principi estetici. La profusione dell'ornamentazione non è qui senza misura. Vi regna un ordine che, se non è classico, non è meno sensibile ed encomiabile. Niente qui è stato fatto senza ragione. Niente qui non è al suo posto, e in qualche modo è indispensabile. Ma perché i benedettini hanno eretto una tale chiesa ? Seguivano essi semplicemente la moda, e cercavano di colare l'arte religiosa nello stampo profano, solo per non essere anacronistici ? Questa interpretazione non spiega tutto, perché la chiesa di Birnau è qualcosa di diverso dalla sala del trono di un palazzo il cui principe sarebbe il re dei re, o della sala di teatro di una super produzione liturgica. Una ragione più profonda sembra dover essere cercata in una concezione differente della religione stessa.

Gli slanci gotici, i chiaroscuri, le rappresentazioni sempre più crude e perfino crudeli della sofferenza, della morte e della putrefazione, l'onnipresenza di creature grottesche o repellenti inducevano alla meditazione sulla miseria dell'uomo e sul tragico del suo destino che lo trascina verso la morte e - se non si converte a tempo - verso l'inferno e i tormenti eterni, essendo la Chiesa formata di uomini peccatori ma penitenti, che volgono i loro sguardi con fervore e speranza verso il Cristo che troneggia nella sua maestra al centro del suo rosone, dopo averlo contemplato in tutte le sue sofferenze corporali nelle sculture e nelle pale d'altare in cui sono compiacentemente esposti gli orrori della sua Passione.

Il barocco, invece, ci stabilisce immediatamente nell'anticamera del paradiso. Contempliamo la gloria dei beati attraverso delle ampie aperture che mettono in comunicazione il tempio terreno con quello del Cielo. Tutti i volti portano l'uniforme del sorriso della beatitudine e ci invitano a prendere il nostro posto al banchetto.

Qui la Chiesa non si tende disperatamente verso altezze inaccessibili, ma il Cielo scende lungo cornici e pilastri e rallegra gli occhi con le sue linee curve, i suoi colori chiari e i suoi ori. Ogni durezza è addolcita, ogni asprezza è smussata, le ombre sono cancellate : tutto è luce e candore originale ritrovato. Ci si attende in ogni momento di udire la musica di Mozart la cui architettura paradisiaca è quella che s'apparente forse di più ai ritmi e alle armoniche dello spazio barocco.

L'uomo non si nutre di solo pane ma...

La natura spreca, non è parsimoniosa, non si ferma alla soluzione più economica, ne crea delle altre, moltiplica, inventa, si supera in fantasie abracadabradanti. Si obietterà che c'è sempre una certa funzionalità nelle sue invenzioni le meno comprensibili, le più strane... le più gratuite... le più belle. La natura ignora l'arte per l'arte, e se si osserva bene, si tratta per lei di difendere la vita, o di continuarla.

Nondimeno, certi fiori tra i più sontuosi non servono alla riproduzione, e continuano a sbocciare, e i pesci delle profondità glauche non sapranno mai che sono multicolori e che nuotano tra le alghe e i coralli di cui le nostre torce elettriche ' rivelano ad essi, se i loro occhi glielo permettono, ad essi nello stesso tempo che a noi, gli splendori variopinti.

L'uomo sa di sprecare, e sprecare è in lui la conseguenza di una decisione formale. Può ammassare e tesaurizzare, può distribuire e spartire, rubare o dare. C'è un tempo per tutto, e scegliere il proprio tempo dipende da lui, mentre nella natura tutto viene dalla necessità. Essere sobrio o ghiotto, parsimonioso o prodigo è a volta a volta buono e a volta a volta cattivo, e la regola è nella sua testa e nel suo cuore più che nella stretta necessita.

L'allegro convito e il digiuno, la quaresima e il carnevale sono buoni nel loro giusto tempo e nel loro giusto luogo. I fiori traggono dal suolo tutto ciò di cui hanno bisogno e niente di più, ma vi sono orchidee e pratoline. Talora niente è troppo bello, troppo buono o troppo costoso : il vino a Cana, il profumo di Maria Maddalena, la veste dei gigli di campo.

A mo' di conclusione

Ostentazione : molto denaro speso per la sola gloria, vana, di averlo speso. E' la ricchezza che si sfoggia con soddisfazione e che contiene in sé la propria ricompensa. La si espone a rischio di mettere a disagio. La bellezza, lei, ha qualcosa di necessario che appaga e non ha prezzo. Il cattivo gusto dei nuovi ricchi dipende dal fatto che mancano di sicurezza e credono di dover dimostrare la loro buona fortuna. L'eleganza non ha questo timore, affetta - talora per un altro snobismo - una falsa indigenza. Si è in diritto di esigere dal ricco la generosità. Ma quando la povertà vergognosa nasconde la propria miseria dietro l'orpello di un lusso da bazar, dietro le lucentezze chiassose dei lustrini e degli strass, í discorsi senza capo né coda di un'eloquenza d'accatto, l'applicazione maldestra d'una scienza senza coscienza, si rimpiange la franchezza che dovrebbe illuminare la povertà.

Parte sesta

Il primo passo che costa

Lasciare ogni sicurezza

Resta un mistero - non così profondo come potrebbe sembrare, poiché vi trovo una risposta personale tratta certamente anche dall'esperienza. Quale molla segreta spinge certi uomini a innovare, quale insoddisfazione impone loro di rifiutare il conforto e il fascino del classicismo per trascinarli nei rischi dell'avanguardia ? Se l'arte ha una storia, è perché non s'è ostinata a percorrere i sentieri battuti, anche al tempo in cui gli apprendisti restavano a lungo sotto la tutela dei loro maestri.

E' la storia dell'arte indipendente dalla storia tout court, o è il suo semplice riflesso aureolato del prestigio un po' desueto dalla cultura, o ancora fa parte della storia degli uomini allo stesso titolo della storia del pensiero, delle tecniche, dell'economia o delle istituzioni ? In quest'ultima ipotesi, quale ruolo è assegnato all'artista ? E' egli, a ogni cambiamento della società, l'infaticabile ministro del sogno pubblico, e la sua carriera culmina forzatamente nell'immortalità accademica ? Non è piuttosto il visionario perpetuamente in anticipo di una rivoluzione culturale, mai completamente ammessa dai suoi contemporanei, perché sempre in equilibrio instabile, sempre in opposizione di fase, perché sempre in ascolto del mondo avvenire ?

L'influenza dell'artista non è forse ignorata per il fatto che non è misurabile, e il suo impegno disistimato per mancanza di criteri di valutazione ? La creazione artistica non si riduce allo sfruttamento, sia pure esemplare, di un talento. Il talento rappresenta una responsabilità e comporta un'ascesi. L'ispirazione non è li per dare un'anima a una tecnica, ma è la tecnica che è 1ì per dare un corpo a una ispirazione. E' per questo che un'ascesi è indispensabile, e vorrei credere che i grandi artisti seguono un cammino che non dovrebbe essere senza analogia con quello dei mistici - notte oscura compresa -, da cui forse l'impressione di lacerazione e di ricerca toccante che emanano i Prigioni di Michelangelo al cospetto della serenità ineffabile della Pietà Rondanini. E quale via estetica percorsa dopo la prima Pietà, ancora così classica nelle forme eppur giustamente celebre a causa dell'illuminazione giovanile che sembra aver folgorato l'autore d'un tale capolavoro.

Penso soprattutto alla nascita, con il cubismo, dell'arte moderna. Improvvisamente, rien ne va plus. Picasso, che potrebbe sviluppare, precisare, affinare il primo Picasso - e ciò basterebbe forse a dargli un posto di primo piano nella storia dell'arte a fianco di Lautrec, di Seurat, di Cézanne - Picasso si mete a cercare disperatamente. Perché ? Non l'ha mai spiegato, e Braque - che fu un po' più tardi il primo compagno dell'avventura cubista rivela l'esistenza del mistero, pur senza svelarlo : Ci siamo detti con Picasso, durante quegli anni, cose che nessuno si dirà più, che nessuno saprebbe più dire ;, nessuno saprà più comprendere. Cose che sarebbero incomprensibili e che ci hanno dato tanta gioia, e ciò sarà finito con noi.

Splendido ! Un'unità di spirito e d'ispirazione creatrice vissuta da due grandi artisti che sono allora dei novatori incontestati ! Quale esperienza ha potuto staccare così Picasso e poi Braque ? Non lo sapremmo dunque mai esattamente. Qualcosa come il lampadario di Galileo, o la mela di Newton, ha scatenato in lui un nuovo modo di captare la realtà e di renderne conto. E vedono la luce Les Demoiselles d'Avignon, primo tentativo di un'arte nuova. Più che nuova. Diversa.

Se Picasso non ha parlato, i suoi quadri in compenso sono lì per farci partecipare l'emozione originale del cubismo. E' chiarito quasi certamente che lo choc è dato da Cézanne e dall'arte negra le cui influenze congiunte sono tanto sensibili nelle Demoiselles. Questo primo choc provoca una valanga. Perché se Les Demoiselles - bisogna pur dirlo - restano un'opera di fattura incompiuta e composita, ormai Picasso, e con lui la pittura contemporanea, rompe con una tradizione che risale al Rinascimento.

Tre anni più tardi, le principali opere cubiste sono dipinte. Esse folgoreranno la forma reale in favore di una figurazione sempre più ermetica. Eppure, qual emozione in queste tele ! E' che, unitamente allo smantellamento delle strutture formali, si nota in Picasso una preoccupazione sempre più grande di unificazione delle sue composizioni. Non esiste più vuoto, più fondo. Il soggetto non esiste più di per sé e per sé. E' polverizzato, ma invade la tela. Tutto è soggetto.

Nella stessa epoca, altri elaborano la teoria della relatività, scoprono il radio, esplorano l'inconscio, mettono a punto la non-violenza incontrano il Cristo nella Materia, costruiscono il Teatro degli Champs-Elysées, e compongono la Sagra della Primavera.

Tutti, trascinati da un'intuizione creatrice, infrangono la costrizione delle idee preconcette, rimettono in causa, in nome di un imperativo interiore di un'evidenza che non è tale che per loro, l'ordine che s'era instaurato trionfalmente nella società e nel pensiero occidentali alla fine del diciannovesimo secolo.

Come Abramo, a cui Jahvè aveva detto : Lascia il tuo paese, la tua parentela e la casa di tuo padre per il paese che ti indicherò, essi abbandonano la strada maestra per aprire vie lungo le quali niente e nessuno, se non la forza della loro convinzione, può guidarli.

Fu probabilmente un sentimento di questo genere che colse un pittore barcellonese, sicuro del suo talento e già votato al successo, nella camera che divideva con Max Jacob in una casa sordida che il poeta ha soprannominato il battello-lavatoio, questo luogo di convegno di un gruppo di amici che non sapevano ancora che avrebbero costituito l'élite artistica e culturale dei successivi decenni.

Come gli è capitato ? Lentamente ? Come quell'altra presa di coscienza che Sartre analizza nella Nausea. 0 bruscamente, contemplando forse una maschera negra e trovando nella sua energia plastica, nel suo ermetismo compatto, nella semplificazione impietosa delle sue forme, più affinità con ciò che ribolle in lui che non nella sua pittura. Si comprende allora come un pittore così rapido e fecondo metta tanto tempo a eseguire un'opera che lascia del resto incompiuta. Sa ciò che lascia, ma non dove va. " Io farro di te un grande popolo, ti benedirò, magnificherò il tuo nome che servirà di benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno, condannerò coloro che ti malediranno. Per causa tua saranno benedette tutte le nazioni dalla terra... "

Allorché questo virtuoso del pennello impiastriccia a stento per la prima volta un'opera maldestra, si rende conto che essa sarà una delle tele più celebri del suo tempo ?

Ma, dieci anni dopo, Picasso muta stile ed entra in un periodò neoclassico. Gli restano quasi sessant'anni da vivere, che consacrerà esclusivamente alla sua arte, con un accanimento e una produzione che non hanno uguale, se non in un Giovanni Sebastiano Bach o un Michelangelo. Dipinge, incide, abbozza scenari per balletto, inventa il collage, scolpisce, gioca al vasaio e al poeta. E questo cambiando di stile come si cambia d'umore. Passa dal classicismo ad una scomposizione delle forme sempre più violenta, sempre più esacerbata. E oscilla tra questi due estremi in maniera vertiginosa, costellando la sua opera di esemplari da maestro che emergono dalla massa di una produzione la quale sembra essere, a volte, il frutto più di una bulimia artistica che di un vero gusto della bellezza. Preferendo sempre eseguire una nuova variante piuttosto che perfezionare l'opera sempre iniziata e mai portata a termine - che acquista così alle volte l'evidenza mai uguagliata di uno schizzo, ma non sembra voler attingere la purezza di un'opera collaudata dal lavoro e dalla meditazione.

Cos'è che spinge così Picasso a ciò che bisogna pur chiamare una fuga, sia pure in avanti ? Persegue quell'ideale estetico che tutto il suo essere avverte ? Aspira al capolavoro sconosciuto che non ha mai prodotto ?

Ha udito in sé una parola che nessuna bocca può dire, nemmeno la sua, e tenta di ricostituirne, tela su tela, i suoni inarticolati ? Sono settantasette anni che dipingo, ma ho ancora molte cose da dire con la pittura...

La gloria non è mancata a Picasso. Intorno a lui s'è formata rapidamente una leggenda. Un mito Picasso. Il pittore s'è lasciato chiudere nella sua gloria e nelle audacie ben presto classiche del suo personaggio ? Lui solo sa se è restato fedele alla prima ispirazione e all'ispirazione di ogni giorno, se ha sinceramente voluto fino in fondo gridare quella parola che aveva udito, o se è semplicemente divenuto Picasso, e se ha continuato a parlare benché non avesse più niente di nuovo da dire perché, se avesse taciuto sarebbe stato obbligato a udire il silenzio.

Da cinquant'anni nessuna corrente artistica si rifà più a lui.

Ecco forse il messaggio più sublime e più semplice dell'artista. Ascoltando in lui vibrare il domani, aiuta la generazione futura a comprendere il suo oggi.

Ma allora, per lui, è già troppo tardi.