"Farsi uno"
nell'arte

Nella spiritualità dell'unità, "farsi uno" è un punto dell'arte d'amare. E' molto esigente, ma apre, senz'altro, prospettive impreviste e ricche di significato per la vita sociale. E' una travolgente proposta etica, che interessa tutti gli esseri umani.
Ma qui, oggi, siamo insieme in quanto artisti e il mio compito - certamente non facile - consiste nel riflettere con voi sulla valenza estetica del "farsi uno".
Prima, però, mi sembra opportuno fare un rapido passo indietro, chiedendoci quale valenza estetica abbia l'amore. Per darmi coraggio mi avallo della famosa espressione di Vincent Van Gogh: "Non c'è niente di più realmente artistico dell'amare gli uomini."
L'Amore, con l'A maiuscola, per il credente è Dio stesso. Dio è Amore. Ma questo amore non è solo voler bene, è anche voler vero e voler bello. L'Amore che è Dio non è solo etico, ma anche, e nella stessa misura - infinita - metafisico e estetico. Dio-Amore si chiama in modo particolare e per quanto ci riguarda in quanto artisti, Dio-Bellezza, e l'Amore si chiama Bellezza.
Il mio compito consiste dunque nel presentarvi il "farsi uno" come una proposta estetica che apre prospettive impreviste, e ricche di significato per la vita artistica.

Toscanini

Si racconta che una volta il grande Toscanini doveva dirigere un concerto per pianoforte. La prima prova fu uno scacco pietoso, l'orchestra e il pianoforte andavano ciascuno per conto proprio. Il Maestro si china verso il solista e gli chiede con aria severa: "E' proprio così che lei pensa di suonare questo concerto?"
Il giovane pianista, intimidito dal mitico direttore, risponde con un filo voce, un esitante: …sì, Maestro. "Benissimo! Allora riprendiamo." E Toscanini dirige una nuova prova che funziona perfettamente. Si era fatto uno con l'interpretazione del giovane solista, diversa dalle solite, e aveva diretto magistralmente l'orchestra, in modo da valorizzarla pienamente.

Celibidache

Un altro direttore leggendario, Celibidache, in una prova con il Berliner, chiede a tutti i musicisti di suonare pianissimo e fa dialogare da uguale ad uguale l'imponente e perfetta massa orchestrale con il flauto per fare sentire al pubblico il suo esile e delizioso canto, nascosto nei pentagrammi della partitura, e mai scoperti da direttori meno sagaci.

I Quintetti per archi di Mozart

La bellezza è una ricompensa, non si lascia sempre afferrare al primo tentativo di abbracciarla. Mi ricordo quando mio padre mi fece ascoltare per la prima volta i quintetti per archi di Mozart: fui sconcertato da questa musica, così poco piacevole. I dischi - erano quelli di vinile - costavano molto, e quasi per sfida mi sono sforzato di ascoltarli. Lo sforzo non fu vano e i quintetti per archi di Mozart sono diventati i dischi preferiti della mia giovinezza.
La musica è un esempio fin troppo ovvio del "farsi uno" nell'arte. La musica che merita questo nome esiste solo se il "farsi uno" è praticato da tutti: direttore, solisti, orchestra senza dimenticare il pubblico. L'interpretazione e l'ascolto esigono lo stesso vuoto della mente, sia per riprodurre sia per accogliere, in tutta la sua novità e grandezza, l'ispirazione del compositore. Per questo la musica è usata spesso come metafora del "farsi uno" etico.

'59

Da giovane ero molto timido e piuttosto solitario. Mi era assolutamente impossibile disegnare su ordinazione e ancora meno in pubblico. Alla Mariapoli '59 mi fu chiesto una serie di disegni per decorare una sala. Nel momento in cui mi sono trovato seduto sul bordo del mio letto, la penna stilografica ferma ad un centimetro sopra la carta posata per terra (non c'era neanche un tavolo) con tutta la camerata in cerchio che mi osservava, mi sono detto: adesso verifico se quello che predicano qui funziona, e se, in queste condizioni, riuscirò a disegnare. Effettivamente ho realizzato velocemente diversi disegni che purtroppo sono andati persi, ma ne rimane uno che, quasi un mezzo secolo dopo, mi stupisce ancora per la sua novità.

Ritratto di papà

Quando mi è stato chiesto di riprendere a dipingere e di occuparmi del Mondo dell'arte, ho cercato di capire i grandi maestri. Ho studiato le loro opere, ho letto quello che avevano scritto o detto sulla loro arte. Mi sono fatto discepolo loro, come un religioso si fa discepolo del santo fondatore. Mi sono fatto uno con tanti artisti, non copiandoli, ma cercando di essere fedele alla mia arte, come questi grandi sono stati fedeli alla loro. Così si è formato nella mia mente una famiglia artistica sempre più vasta. Mi sento figlio e fratello di tanti artisti, e azzardo dire che in questa famiglia artistica si integrano anche dei figli.
Mi ricordo un'impressione fortissima mentre dipingevo un ritratto di mio padre. Sentivo, presente quasi fisicamente dietro di me, Paul Cézanne, che mi guardava lavorare, e mi incoraggiava.
Un'altra volta, mentre dipingevo un gran volto, lasciandomi portare dall'entusiasmo della mia mano, ho avuto l'impressione di entrare nella mente di Picasso, e di capire dal didentro la sua pittura, di provare in qualche modo le stesse sensazioni del geniale spagnolo.

L'ispirazione

Una volta avevo dipinto un dittico dell'Annunciazione. L'avevo dipinto appositamente su due tele, in omaggio agli innumerevoli angeli e madonne - affrescati o scolpiti - che si specchiano in tante chiese, separati fra loro alle volte da diversi metri. Non avevo rappresentato l'angelo. C'era solo una finestra aperta e le tende sollevate dalla brezza dello Spirito.
Di domenica ricevo la visita di una giovane pittrice, certamente brava ma molto sicura di sé. Mi dice in tono perentorio che la parte destra del dittico è in sé sufficiente, e m'ingiunge di dipingere una nuova Annunciazione con solo la finestra e le tende. Devo confessare che essendo particolarmente soddisfatto di quel dipinto, la sicurezza di questa ragazza m'infastidisce, anche se so che in qualche modo lei ha ragione. Cerco di giustificarmi, senza successo.


L'indomani, lunedì, giorno lavorato, torno al laboratorio e seguo l'indicazione della giovane pittrice. Riprendo la parte destra del dittico e per alcuni giorni lavoro a questo quadro, finché mi sembra di non poterlo migliorare. Nasce una immagine completamente nuova.


La nascita di una immagine nuova suppone una ispirazione. L'ispirazione non mi viene in genere da una illuminazione romantica, ma il più delle volte dal farmi uno, vale a dire dall'essere vuoto completamente - senza fantasia, senza ispirazione - con la sola volontà di dipingere.

Un altro lunedì mattina ero proprio in queste condizioni, a priori poco favorevoli alla creazione artistica. Per giunta non avevo nessuna tela. Trovo nella soffitta un pezzo di compensato e decido che lo dipingerò, ma non ho veramente nessuna idea. Allora lo dispongo sul cavalletto e lo guardo e gli dico: devo dipingerti ma non so con quale soggetto. Tu devi farmelo capire! Per un tempo molto lungo continuo ad osservare questo pezzo di compensato e ad interrogarlo. Trovo le prime indicazioni nelle venature del legno, in alto in forma di V, che mi portano a dipingere quello che sarà un'immagine nuova dell'Ecce Homo.


Un'altra volta ero ospite di un pittore molto bravo nelle nature morte. Esso é un soggetto tradizionale nella storia della pittura, che però non avevo mai trattato. Le spiegazioni che Tobias mi da del suo lavoro mi affascinano: in particolare come per lui disporre gli oggetti in relazione gli uni con gli altri, sia il momento più emozionante, quello più creativo. Mi lascia nello studio per fare delle spese con la moglie. Aveva disposto gli oggetti di una natura morta che non aveva mai dipinto. Sorrido osservando una cipolla cresciuta assurdamente…


Per entrare nel mondo estetico del mio amico, dipingo questa natura morta, e scopro una potenzialità sconosciuta della mia arte.

Ryoanji

Finalmente sono davanti al Ryoanji di Kyoto, il più famoso tra i "giardini asciutti" giapponesi fatti di ghiaia e di sassi. Piove a catinelle. Brutto scherzo per un giardino asciutto! La luce non manca, ma diffusa: non ci sono ombre. Tutto è piatto, indistinto. Niente in comune con le foto che, dai tempi delle Belle Arti, mi hanno fatto innamorare di questo luogo mitico.
Qui i monaci Zen meditano da cinque secoli. Guardandolo, contemplano il paradiso del Buddha. Voglio entrare nel loro sguardo. Metto in opera il mio personale "metodo di meditazione", in questo caso, non religioso, né filosofico, ma artistico. Disegno.

Schizzo dopo schizzo, perdo ogni nozione del tempo e dello spazio. Al posto dei sassi, vedo montagne, isole, continenti, e invece della ghiaia il mare senza rive, il mare cosmico. Disegno ingenuamente quello che ho davanti agli occhi, ma i pastelli che la mia mano esegue sono paesaggi interiori, archetipici.


Come tutti i veri capolavori dell'arte, questo giardino mi riporta a me stesso, al centro di me stesso, alla porta stretta che conduce al mistero dell'Essere, al Bello, quel Bello che conosco bene e che da sempre chiamo Dio.

Nacho Llamas

Nacho Llamas, un artista di Toledo mi ha scritto una sua esperienza. "Lavoravo ad un'opera già molto elaborata ma non risolta. La mostro ad Agustin, spiegando il concetto di partenza, le motivazioni del suo sviluppo, etc.


Cominciamo a manipolare, a togliere elementi e ad introdurne di nuovi, a cambiare l'intensità della luce, etc. Il tutto in un interessantissimo dialogo. Dopo un'ora l'opera è risolta.
L'importante non è tanto che l'opera sia risolta. Quello che mi sorprende è che non è un'opera collettiva o fatta insieme. E' un'opera solo mia. La mia ispirazione artistica, per questa opera, è passata attraverso il cuore, la mente e la bocca d'Agustin. Assistevo, perplesso, alla potenza della comunione nell'arte.
Abbiamo analizzato col gruppo dell'arte quello che era successo: una profonda comunione estetica, generata da una parte dal vuoto fatto da Agustin, fino a dimenticare le sue idee, la sua formazione e il suo bagaglio estetico, per convertirsi in un puro canale dell'ispirazione a beneficio mio; e, dall'altra parte, generata dalla mia fiducia nel vuoto d'Agustin e nella potenza della comunione. Siamo coscienti del pericolo di strumentalizzare la comunione per risolvere un'opera d'arte o provocare l'ispirazione; ma abbiamo visto con i nostri occhi la potenza artistica della comunione."

La coscienza estetica

Farsi uno, ma fin dove? Sul piano etico, la risposta di Chiara - che poi è quella del Vangelo - è travolgente: in tutto escluso il peccato. L'amore del prossimo ci comanda di amarlo senza limiti se non quelli posti dalla propria coscienza etica, senza giudicare evidentemente quella del prossimo. Non si può andare contro coscienza, neanche per amore del prossimo: questo è un imperativo assoluto. Può succedere che nella sua carriera, un artista abbia da risolvere gravi problemi morali: e conosco tanti artisti che sono stati fedeli alla voce della loro coscienza etica, anche a caro prezzo.
Ma oggi non è il mio compito parlare di etica ma di estetica.
Riprendo la domanda. "Farsi uno" nell'arte, ma fin dove? In tutto escluso il peccato. Fino ai limiti posti dalla propria coscienza estetica?
In nessun modo un artista può agire contro la propria coscienza estetica. E come nessuno può obbligare un altro ad agire contro la propria coscienza etica, così nessuno può obbligare un artista ad agire contro la propria coscienza estetica. Farlo è un sopruso purtroppo commesso quotidianamente dal Mercato dell'arte onnipotente, senza parlare delle ideologie profane o sedicenti religiose. E' qui il limite al farsi uno. Non possiamo acconsentire al sopruso del mercato dell'arte guidato dal solo tornaconto economico e tanto meno al sopruso della pretesa delle ideologie di strumentalizzare l'arte.
Una precisazione mi sembra opportuna. La Bellezza, il Bene e il Vero sono sono ugualmente Dio ma secondo modalità diverse. L'arte non può essere giudicata con i criteri metafisici o etici, ma con quelli dell'estetica. Il Bene non può essere giudicato con i criteri metafisici o estetici con quelli etici. Così il Vero sarà giudicato con i criteri metafisici. Ciò nonostante, il Vero, il Bene e il Bello non possono entrare in conflitto, perché essenzialmente sono un solo Dio.
Ma parliamo qui di situazioni estremi, non sempre presenti - fortunatamente!, nella vita quotidiana.
Mi viene una domanda: vale anche per l'estetica il paradosso evangelico che propone di farsi uno con il nemico se le nostre estetiche fossero in antitesi? Strade opposte nella ricerca della bellezza, impercorribili per l'altro se non si vuole andare contro la propria coscienza estetica. La storia dell'arte è fatta da antitesi che si susseguono nel tempo, da inevitabili "uccisioni del padre".
Prima di poter considerare serenamente Picasso come un fratello, ho dovuto risolvere il violento conflitto generazionale che me lo faceva percepire come un padre dispotico, un genio così mostruoso da mangiare i propri figli, impedendo loro di diventare un artista adulto. Dopo il dipinto del quale ho parlato prima, per me era chiaro che il fatto che Picasso fosse così grande, così affascinante, e di sicuro rappresentativo dell'arte del secolo, non mi obbligava a dipingere come lui, ad essere un suo epigono. D'altronde, non perché ero diverso, mi era proibito di capirlo intimamente e di partecipare nel mio modo alle sue scoperte estetiche.
Quell'artista è un nemico per me, nemico artisticamente s'intende, per ragioni storiche (Picasso) o geografiche (Giardino giapponese). Ma una volta identificato il nemico, niente impedisce di farci uno con lui. Possiamo riconoscere il valore di una estetica in dialettica, magari vivace, con la nostra, e - perché no? lasciarci contestare da essa, affinché la nostra estetica non sia unidimensionale, provinciale, senza storia e senza futuro, ma universale, pure nella sua limitatezza comune ad ogni avventura dello spirito umano.

Bello troppo bello

"Farsi uno" nell'arte, in tutto escluso il peccato? Ogni peccato potrà essere perdonato fuorché il peccato contro lo Spirito. Questo ammonimento evangelico rimane misterioso nonostante gli innumerevoli studi. Mi domando: esiste un peccato estetico che non può essere perdonato? Un peccato contro lo Spirito cheé Bellezza? Esiste un limite nel farsi uno nell'arte? Un'estetica che in nessun modo possiamo condividere?
Penso proprio di sì: è l'estetica che chiamo luciferina (da non confondere con espressioni pseudo artistiche, giudicate sataniche, per ragioni morali più che estetiche).
Lucifero - il suo nome ce lo dice - è il portatore di luce, della stessa luce di Dio, l'angelo bello per eccellenza. Una tradizione mostra Lucifero, angelo perfetto e cosciente della perfezione di Dio, che non vuole accettare che Dio - puro spirito, pura bellezza - si contamini con noi, impuri, brutti, carnali, sensuali, e lo tradisce per eccesso di fedeltà. Si impadronisce delle sembianze della bellezza staccate dalla loro fonte. L'estetica luciferina confonde la bellezza con il gradevole: é bello quello che piace a prima vista, a primo udito. Per essa non esistano né ombre né dissonanze. Tutto è liscio, leccato, orecchiabile, mieloso, gradevolmente profumato. E' angelica, nel senso di eterea, disincarnata, dematerializzata, atemporale e sradicata culturalmente: é il volto luccicante e seducente della globalizzazione.
Dobbiamo lottare contro questa estetica, per lo meno contro il fascino che non manca di esercitare su ciascuno di noi. Nessuno è immune dalla tentazione luciferina. E' il peccato estetico originario. Per questo il buon gusto non è innato.
Una ultima domanda. Se la Bellezza è Dio, è eterna, increata, infinitamente 11distante e assolutamente irraggiungibile dai nostri sensi. Non possiamo conoscerla né renderne conto con la nostra arte. Non possiamo farsi uno con essa. E, inversamente, Dio non può conoscere la nostra arte.
Quando ho finito una opera, che l'ho firmata, si distanzia da me. La guardo e provo un intenso senso di mistero. Vorrei poter entrare dentro per delucidare il mistero che contiene, ma non posso.
Mi viene da pensare che Dio guardando la sua creazione, avrà magari provato anche lui uno sgomento un po' simile al mio, avrà desiderato entrare nella sua creazione, farsi uno con essa per capirne il mistero.
Facendosi uomo, a dispetto dell'opposizione di Lucifero, ha visto, ascoltato, gustato, toccato, sentito il creato con i nostri stessi sensi. La Bellezza increata si è fatto uno con la bellezza creata, fino alla morte della bellezza, ed è risorta.
Da allora un Uomo vede, ascolta, gusta, tocca, sente con i nostri sensi la Bellezza eterna, e ci invita a partecipare al suo godimento. La nostra è l'estetica del Risorto.


Michel Pochet